Era fitta abbastanza da costringerlo a focalizzare i suoi passi per non inciampare nei sassi del vialetto lastricato.
Il giorno prima, appena dopo, aveva acceso la candela, affiancandole un tronchetto di calcite bianca, alto venti centimetri, spezzato sopra e sotto con un taglio netto. In centro, aveva un piccolo foro.
I primi ragazzi erano arrivati alle nove meno un quarto, come ogni giorno, e gli ultimi alle nove, puntuali.
La candela aveva grumi di cera, una colonna decorata dal calore e dalla gravità. Milioni di uomini erano stati affascinati da questo. Lui aveva preso una bacinella di sabbia finissima, l’aveva bagnata, e poi aveva fatto colare quel mosto di granelli di sasso dalla stessa altezza della candela. Così si era formato un mucchietto scomposto come quello che da sempre i bambini costruiscono sull’arenile bagnato dall’acqua, là dove vanno apparentemente a morire le onde. Ne era uscito un castello dalle pareti raggrumate, vagamente barocche.
«Vedete» aveva detto ai ragazzi, «lì l’acqua ci ha messo secoli, qui il fuoco due ore, e ora io e l’acqua pochi minuti. Vedete? Le forme sono simili».
Sospirò.
«C’è della matematica, sotto. Tre mondi diversi che si dispongono secondo un ordine forse comune».
Alzò il capo. La luce rotolava sui volti di ognuno, biancastra. Qualcuno rideva, uno era incantato. I più ciondolavano il capo senza chiedere nulla, e alcuni si toccavano a vicenda. Uno piangeva.
Non potevano capirne, lo sapeva.
«Beh, non c’è matematico al mondo capace di anticiparne le forme con un calcolo giusto, sapete?».
Terminò di far colare la sabbia, poi si lavò le mani.
«No, non c’è n’è uno» aggiunse, rivolgendosi a uno degli idioti.
Più tardi, all’orario di mensa, aprì la busta e lesse la lettera. Come sempre, dava poco interesse al sapore del cibo.
Ora arrivò alla banchina del pullman, ed era ancora buio, quantunque si intravedevano i rampicanti giallastri che l’avevano come ingoiata.
Mi mancherete, magari, si disse. Chissà se io a voi.
Molti degli idioti urlavano alzando un braccio, sbattendo la testa, con la mano facendo il gesto di chiamarlo. Lui ripeté il gesto. Intanto arrivò il pullman.
«Buon giorno» fece l’autista.
«Buongiorno» fece lui.
Quando urlavano, il palmo della mano era sempre semi aperto. Come se il grido partisse dalle linee scavate nella pelle.
Dopo poche curve la luce era ormai giallastra, e i contorni delle cose sfrangiati
e tremuli. Ci sarebbero voluti giorni, per arrivare a quel posto, e si domandò se non si fosse annoiato.
Anticipò la risposta chiudendo gli occhi e iniziando quel calcolo cominciato anni prima.
I primi passaggi, quei primi passaggi.
Strisciare sui numeri, aveva capito che il segreto era quello.
Arrivava sempre a un punto, proseguiva, e poi ne era annientato. Antonj Ivanov era prigioniero di un risultato che non voleva svelarsi.
Là avrò tutto il mio tempo, si disse.
Vitalj Artchenko aveva dieci cani, nella fattoria di quella zona della Georgia, e per vivere suo padre vendeva latte, uova e patate, poi un giorno smise e andò a lavorare in fabbrica. Nel mentre, Vitalj andava a scuola, ma studiava poco, e aveva voti normali, qualcuno anche mediocre. Persino in scienze non era un fenomeno.
I suoi cani, però, sapevano contare. Uno fino a quindici, e gli altri almeno fino a cinque. E poi sapevano associare i numeri ai colori. Gli insegnò oltre cento comandi, e poi frasi intere, e per ciascuna frase dovevano fare qualcosa. Ogni pomeriggio, tutti i pomeriggi, loro si mettevano di fronte, sdraiati, e lui insegnava le cose. Avvenne fino alla fine di tutto, quando anche l’ultimo morì e lui cominciò a lavorare, insegnando in una scuola per disabili. Scrisse tutto quello che aveva fatto, impiegando oltre un anno, perché all’inizio non si ricordava, esattamente, come erano andate le cose.
Non sapendo a chi mandare lo scritto, lo tenne per sé. Qualche anno dopo, lo mise su internet.
Miro Stojkovic dipingeva sempre la sera, e la notte. Non dormiva mai, di notte. E dipingeva col buio. Di giorno dormiva poco, poi dipingeva, e vendeva quei quadri d’estate, a Dubrovnic e a Spalato, quasi sempre ai turisti. Quelli dipinti di notte li teneva per sé, perché nessuno li avrebbe sicuramente comprati. Erano tele scure dipinte di nero, con solo lievi sfumature che davano un’idea falsa di chiaro. Illuminati, affogavano lo sguardo e chiunque ne sarebbe stato inghiottito. Come se la vita ne fosse risucchiata, assorbita, e ne avesse paura.
Miro era autodidatta e aveva lasciato la scuola da ragazzo, pur avendo voti altissimi in disegno. Disegnava, di getto, qualsiasi cosa gli venisse richiesta, e qualche volta inventava. Una volta colpì tutti disegnando l’Inferno, e la gente si domandò perché non avesse mai usato il rosso, in quel disegno perfetto.
«Perché l’ho disegnato all’interno» rispose.
«In che senso?» gli chiedevano.
«Da là, disse. Là dentro è tutto buio, non c’è rosso».
Molti anni dopo, aspettando la notte, ascoltò un programma alla tv, che parlava di Universo, e certe teorie. Non ne capì molto, ma fu incuriosito da come descrissero i buchi neri. Da quello che facevano. Da quello che potevano fare. Da come morivano. E da come facevano morire le cose.
Dominique Drexler viveva alle Bahamas, da sempre. Là nessuno imponeva le cose, e nessuno avrebbe chiesto di farlo. Nessuno, anche, lo avrebbe accettato. Dominique si chiamava così per un capriccio del padre, che aveva accompagnato per anni a pescare.
Quando il padre morì, lui aveva undici anni, e l’abitudine di andare alla spiaggia. La chiamava così, e aveva delle rocce basse, da un lato, che i coralli, nei secoli, avevano forgiato con tanti piccoli archi, e barriere che la marea superava con grazia tutti i giorni e tutti i mesi dell’anno. Dominique andava lì e guardava i pesci, centinaia, che restavano intrappolati nelle lagune minuscole, e poi tornavano al mare con la marea.
Davanti alla spiaggia, la laguna era chiusa, duecento metri più in là, e il mare si sfigurava in marosi furiosi, e i pesci erano diversi, anche se simili.
Alla spiaggia le rocce formavano ventitre piccole pozze, e solo per caso, o per una curiosità che veniva dal cuore, Dominique per tre giorni si mise a contare i pesci che speravano nell’alta marea.
Il quarto giorno, arrivando ancora a contarne novantadue, come nei primi tre giorni, ebbe il sospetto che l’attesa fosse solo sua per davvero. Loro, invece, stavano lì, per scelta.
Dopo due settimane di conti, non aveva scoperto altro che non fossero, sempre e comunque, novantadue. Ogni pozza ne conteneva un numero, e la somma era sempre la stessa.
Allora tornò con un quaderno, ogni pagina un giorno, tracciò ventitre righe a pagina e scriveva il numero di pesci per ogni pozza. I pesci non erano tutti della stessa specie, ma di tre specie diverse. Ogni riga, comunque, finiva per avere un numero diverso.
Prese un altro quaderno, e divise le pagine in blocchi, e ogni blocco aveva le pagine dei giorni di una fase lunare.
Andava ancora a scuola ed erano passati tre anni quando era in grado di predire, esattamente, il numero dei pesci che avrebbero occupato la pozza della sedicesima riga. O della terza. Non faceva differenza, per lui, rispondere sull’una o sull’altra riga.
Akira Takasaki avanzò nel corridoio non si sa bene se inseguendo la scia profumata, forse troppo, della donna, o il suo incedere vagamente ritmato. O forse la testa era altrove, nonostante l’evidente importanza dell’evento. Che Akira Takasaki, per così dire, avesse spesso la testa in altro luogo, era d’altronde risaputo fin dai tempi delle scuole elementari, quando, a fronte dei primi sontuosi giudizi scolastici, soleva mostrare un’assoluta indifferenza, vorremmo dire indisposizione, verso le istituzioni, allora maestre e genitori, in seguito professori, capiufficio, uffici del personale, persone e luoghi così.
Akira Takasaki, in sostanza, si era sempre fatto i fatti suoi, ma con genialità, possiamo dire, perché di fatto aveva un’intelligenza decisamente superiore alla media, che poi, si disse negli anni, in molti ambienti di lavoro non era poi così difficile, visto che regole e burocrazie suturavano fantasia e inventiva con stupefacente efficacia. In un dettato, alle elementari, o meglio alle scuole che nel suo paese chiamavano elementari, aveva inserito un suo pensiero, che suonava così: L’intelligenza dà fastidio, perché smaschera gli errori e rivela la mediocrità. La mediocrità sta nella media, infatti le due parole iniziano per MEDI, qualcuno deve aver coniato le due parole nello stesso tempo – non era vero, tuttavia le maestre rimasero piuttosto stupite dall’utilizzo, da parte di un tappetto di nove anni, del verbo coniare – .
Pausa.
«Se sei medio sei sostituibile da un mucchio di altri medi, altrimenti perdi un sacco di tempo a rimpiazzare l’intelligente» – qui le maestre individuarono un’imprecisione sintattica – . «Inoltre a me sembra che si tenga a elogiare prima la disponibilità, poi la buona volontà, e infine la bravura. Nella fattispecie – ma dove cazzo ha trovato il termine fattispecie? commentò il Preside. Non è neanche appropriato, qui – la bravura è premiata fino a quando sei bambino, di fatti ti dicono sempre bravo! con gioia. Dopo, più avanti, è meglio se da bravo ti trasformi in ragazzo di buona volontà. Infine, sul lavoro – qui il Preside perse il controllo, sbraitando: questo pistolino non sa neanche cosa sia, il lavoro, e sentenzia! – è definitivamente meglio – eh, qui non è elegante, sottolineò la maestra dell’altra classe – se sei disponibile, perché la buona volontà sa di bontà, infatti buona e bontà si assomigliano e comunque iniziano con B – fa anche l’analisi delle parole, questo qui, sbuffò il padre di Akira, a casa dopo aver firmato due pagine di nota ai genitori firmate dal Preside – . Dunque, la propria vita, secondo la massa e la convenienza – bum! disse ridendo il maestro di ginnastica, l’unico che, sotto lo sguardo negativo di tutti, non prese troppo sul serio le esternazioni del bambino – è meglio che percorra un sentiero a tappe nel quale i traguardi siano sincronizzati all’età…, bravura, buona volontà, e disponibilità».
Pausa.
«Da notare come mio padre lavori dieci ore al giorno e mia madre, assistente al Direttore, nonostante a casa non mi sembri proprio una cima nel fare le cose, lavori anche quattordici ore al giorno, che secondo me sono in generale troppe perché certamente, nel mondo, le stesse cose, e la stessa assistenza, la potrebbe fare qualcuno o qualcuna in metà del tempo; secondo me mia madre per essere così benvoluta dal Direttore si comporta in maniera strana, poi fra l’altro a casa non azzecca un’osservazione, che assistenza potrebbe mai fare?, da quello che ho capito dà consigli sul come comprare i vestiti usati nello sport, ma lei non ha mai neppure camminato veloce, figuriamoci lo sport che per quanto ne so io, e neanche tanto perché non me lo fanno fare e ho la stanza piena di giochi statici, implicherebbe – però! – almeno una certa cognizione – ha copiato, ha copiato da qualcosa – del moto.
Pausa e sospiro. Fine.
Molti anni dopo, Akira Takasaki non era proprio un uomo qualunque, per dir la verità era forse il personaggio vivente più importante del pianeta, anche se non lo sapeva nessuno. Era quello che aveva inventato l’SMS, la famosa stringa di caratteri che si mandava ormai anche dall’Antartide, e quel corridoio, tra i più rappresentativi corridoi del mondo, lo stava portando dritto dritto all’ufficio del Dott. Mr. Sammers, potentissimo amministratore delegato di una società leader nella distribuzione dei videogiochi in Europa. Mr. Sammers aveva un piccolo, ma rovinoso, problema: la gente si stava stufando, dei videogiochi, ma lui voleva mantenere gli stessi guadagni e gli stessi volumi. Voleva inventare qualcosa, ed era sicuro che il problema fosse tra i suoi dipendenti, oziosi e maldisposti verso le novità, l’inventiva, la fantasia, cicatrizzatesi nel successo, non più desiderosi di stupire, di creare. Così Mr. Sammers, una notte, bagnato di sudore, si era svegliato con l’incubo di un ritorno alle sue umili origini di lavoratore in officina, e dal grasso nero di quell’incubo era sgorgata l’idea principe: rintracciare l’uomo che aveva inventato quella cosa che, dai cinque anni in su, aveva cambiato tutta la gente del mondo.
Così era arrivato ad Akira Takasaki, che ora, mentre vi abbiamo scritto l’introduzione, era finalmente entrato nell’ufficio bianco avorio, dando uno sguardo distratto come se fosse entrato in un cinema di periferia, e questo, dobbiamo dirlo, mise un po’ in soggezione Mr. Sammers, che da anni si sentiva inferiore soltanto a qualche Dio, e neanche a tutti. Un’altra cosa che ci siamo scordati di dire è che, a dispetto del nome, Akira Takasaki non aveva neanche gli occhi a mandorla. In Europa era arrivato da molti anni, i documenti affermavano senza ragionevole ombra di dubbio che fosse giapponese, tuttavia era alto più di un metro e ottanta, capelli scuri, lineamenti molto europei, carnagione lievemente scura, sguardo decisamente fiero con occhi nerissimi, naso da rapace e ben disegnato, mento profilato in bronzo – così aveva commentato una segretaria – . Era, insomma, un gran pezzo d’uomo, solo col carattere disdicevole.
«Lei mi dica com’era il suo ambiente di lavoro, così noi lo ricreiamo nelle mie aziende. Tutto, voglio sapere tutto… le stampe che avevate nei vostri corridoi, la sua scrivania, se c’erano flessibilità nell’orario di lavoro, tutto, Akira Takasaki, lei ci faccia da consulente e io la coprirò d’oro».
Akira Takasaki guardò di sbieco, potremmo dire, a distanza di mesi, che era proprio tutto inclinato, dalla testa ai piedi. Però non ci pensò molto su, non c’era poi proprio da pensarci, veramente.
«Mah, l’idea l’ho avuta all’autolavaggio».
…
«Dove lavoravo le stampe facevano schifo, comunque io non le guardo, non è il posto giusto, i quadri si devono capire, e in un’azienda capire è un lusso, di arte intendo. Beh, non solo. Se vuole le dico la frase che avevo scritto sul muro a fronte della scrivania, è di Borges, ma presumo lei non sappia chi sia Borges. Comunque è questa: Pensare, analizzare, inventare, non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza. Glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore tutto ciò, è confessare il nostro languore e la nostra barbarie. Ogni uomo deve essere capace di ogni idea».
L’amministratore delegato, dobbiamo dire, ci rimase abbastanza di sale, o basito, in gergo. Anzitutto, non aveva capito una virgola della citazione, in secon125
do luogo non aveva mai citato nessuno oltre a se stesso in vita sua, e in terzo e più incisivo aspetto, pensava di aver capito male una parola pure a prova di male interpretazione come autolavaggio. Per cui, scivolando senza volere dal suo proverbiale autocontrollo, replicò:
«Signor Akira Takasaki, cosa c’entra l’autolavaggio?».
Akira Takasaki era pronto alla domanda, e seppur non preparato alla risposta fu, dobbiamo dire, ineccepibile.
«Difficile che un ufficio dove le pareti sono biancastre, la finestra dà su un cortile chiuso, l’orario è rigido come una sbarra, le riunioni imperano, power point viene usato anche per festeggiare un compleanno, la flessibilità viene ingabbiata in procedure e regole, difficile, sa, che a qualcuno venga veramente un’idea. Così io un paio di volte al mese me ne esco a metà giornata e vado all’autolavaggio, sa, quei tunnel dove entri con la macchina conciata come sei tu al venerdì e ne esce linda come depurata di tossine, obblighi, e doveri. Beh, io me ne sono trovato uno eterno, ci vado alle 11 che non c’è mai nessuno, il benzinaio mi ci fa stare quasi mezz’ora, e lì penso. Dico la verità, ai casi miei, mica al lavoro, però quel giorno pensavo a come mandare a una ragazza che mi piaceva una lettera pur non avendo l’indirizzo ma soltanto il cellulare, rubato in coda a uno sportello di banca mentre lo dettava al commesso, e così ho avuto l’idea, poi l’ho detta il pomeriggio al capo, quello mi ha guardato capendone ben poco e chiedendomi di inserire la proposta in un certo database dove i vari progetti sono poi approvati da quello e quell’altro ancora, allora io mi sono rotto, ho scritto un mail copiando tutta l’azienda, migliaia capisce, con su descritta bene bene l’idea e anche come realizzarla, e un mese dopo l’abbiamo implementata. A margine mi hanno dato un premio di 5000 euro, ma non ho chiesto niente, io, ho solo mandato il primo sms al mondo, alla ragazza, ovvio, non mi chieda come ha fatto a riceverlo perché non capirebbe, comunque poi ci siamo innamorati, bella storia sa? Bella storia davvero».
Aveva un po’ di raffreddore, quindi tirò su di naso, aveva parlato in apnea, aveva fretta di uscire da lì, per dirla tutta. Ad Akira Takasaki la vita non piaceva a pezzi, aveva imparato a gustarla non a morsi, ma nuotandoci, a bocca aperta, un assaggio perenne e continuo, per cui quelle cose lì lo disturbavano, gli sembrava di sembrare impotente verso la vita, che era peggio che esserlo di fronte a una donna, aveva sentenziato un giorno.
Ah, già, Mr. Sammers.
Niente, non disse niente.
Per esigenze di racconto, o meglio di scheda, dovremmo scrivere qualcosa, aggiungere, fare un botta e risposta, ma la dura e cruda realtà è che Mr. Sammers non rispose nulla. Nulla. Così fu Akira Takasaki, a interferire col silenzio grigio dell’ufficio enorme. «Se è tutto, direi che me ne posso andare» disse.
Ci fu silenzio, un paio di secondi, poi a intermittenza Mr. Sammers fece sì con la testa, così Akira Takasaki si girò, e si avviò verso il più rappresentativo corridoio d’Europa.
Mr. Sammers si sedette, aprì il pc, aprì power point, una nuova presentazione, la intitolò Area di Miglioramento: l’inventiva nell’azienda, e stette un po’ lì, come sospeso, prima di scrivere la prima frase.
Dobbiamo far respirare l’intelligenza.
Poi, sotto: il prossimo 18 Dicembre riunione straordinaria avente come oggetto la stesura di un documento guida per stimolare la creatività delle persone, creando un ecosistema, nell’azienda, in grado di incrementare la dinamicità delle idee. La riunione si terrà nella sala Orione dalle 10. 00 alle 12. 30. Si raccomanda la massima puntualità.
Poi prese il cellulare e mandò un sms al figlio, avente come oggetto l’ora a cui sarebbe arrivato a casa.
Ci risulta che Takasaki sia scomparso da diciotto mesi. Ha mandato una lettera di dimissioni giovedì pomeriggio, alle 16. 55, e non si è presentato il venerdì. Pochi se ne accorsero perché è abitudine comune fissare l’attenzione solo a ciò che è utile e non a ciò che vale. Come leggere o ascoltare e non comprendere altro che non ciò che sposa propri interessi o convinzioni