Fabio Palma

Infinite jest

Novembre 14, 2025
di Fabio Palma
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METAFORA DI VITA

Quest’anno di scelte illogiche e foriere di disastri annunciati ne ho viste, questa però le batte tutte perché di mezzo ci sono centinaia di milioni di dollari e non “soltanto” una carriera sportiva.

La caratteristica delle scelte illogiche è che:

1) NON tengono mai in considerazione l’antitesi (TESI, ANTITESI ==> SINTESI, ovvero, sicuro di quello che stai facendo?)

2) sono frutto di clamorose distorsioni cognitive (e passi per gli atleti, che sono davvero molto vulnerabili a esse, ma per un Manager in teoria le emozioni negative frutto di abbagli cognitivi dovrebbero essere tamponate da anni di esperienze)

3) man mano che il disastro si compie, il protagonista afferma con sempre più forza che in realtà sta crescendo e che il futuro, ne è sicuro, sarà roseo. Un giornalista così commentò, ad Aprile: Nico Harrison perfectly encapsulated why he is unfit for his role

4) con rarissime eccezioni, sono irreversibili. Ovvero, il mondo che hai creato con tale scelta non solo non ti accoglie, ma essendo totalmente nuovo non sei minimamente capace di comprenderlo, e in poco tempo ne vieni espulso senza possibilità di ricostruire quello vecchio che stava andando bene.

Sono peculiarità che hanno troncato la carriera a moltissimi atleti, ma anche a Manager di grandiose aziende di successo. Scelte SCELLERATE, affermate con arroganza, spesso irrispettose verso fino a quel momento ti ha dato molto. In pochi mesi, però, tutto quello che si dice nel maestoso dialogo al telefono fra l’avvocato messicano e il procuratore nel film il Procuratore (vedi fine post), si realizza

Sinossi di un film incredibilmente avvenuto

Luca Doncic e’ uno degli sportivi più pagati al mondo, 25 anni ad inizio 2025, tra le prime cinque superstar NBA. Guadagna 50M all’anno,a 13 anni dalla Slovenia si trasferì da solo a Madrid, talento raramente visto nella storia, dopo sei mesi a piangere ci diede dentro e a 18 era già il miglior giocatore europeo.

A neppure 20 anni esordio in NBA, ed è subito un flagello, il suo esordio è devastante.

Nel 2024 porta Dallas alla finalissima. In attacco è un’ira di Dio, in difesa no. Ma sarebbe come chiedere a Messi di fare il difensore o, per chi si ricorda, a Maradona di fare Crippa.

Il manager Nico Harrison, prima all’interno della società Dallas e poi anche pubblicamente, comincia ad andarci giù duro. E’ sovrappeso, beve birra etc etc, (però e’ immarcabile in attacco e ha mani di fata e ti ha portato al secondo posto in NBA), in difesa non corre ed è lentino.

A gennaio, il colpo di scena più grande della storia del basket. Proprio quel manager Nico Harrison, ex manager della Nike, zero competenza in basket, carattere arrogante e despota, lo scambia dandolo ai Lakers

Per 8 ore credono tutti a uno scherzo. Come far arrivare Messi al Real Madrid sbattendolo fuori dal Barcellona.

Lo scambio è con Davis, fuoriclasse dal fisico però assai fragile.

Doncic va in depressione per qualche settimana, ma ai Lakers c’è LeBron che lo accoglie come un padre. Intanto Harrison spara su di lui, sulle sue abitudini alimentari e professionalità. 

Oggi, Novembre 2025, Harrison e’ stato licenziato da Dallas e Doncic ai Lakers e’ un Re. Dallas ha perso oltre cento milioni in mancati abbonamenti e perdite di valore, i Lakers gongolano e anche sportivamente sono abbastanza in alto mentre Dallas è in fondissimo. Davis e’ rotto, come spesso da due anni

Oltre alla metafora sulle scelte illogiche e come evitarle, un secondo insegnamento di vita (che applaudo con forza) è sull’essenza dell’unicità.

Un fuoriclasse ha il suo carattere, la sua personalità, e chiunque voglia applicargli delle regole che valgono per tutti e’ destinato a perdere. Piaccia o non piaccia, non solo non siamo tutti uguali, ma il fuoriclasse è ancora più diverso da ciascuno di noi. Parla e agisce fuori dalle regole altrimenti non sarebbe fuoriclasse. 

E quando un dirigente, un segretario, un manager, un allenatore, vuole imporsi, sempre e comunque verrà bastonato dalla realtà. Lui perché uomo normale, il fuoriclasse perché superiore alle regole, giuste o ingiuste, semplicemente illogiche per lui. Sono rarissimi i fuoriclasse, vanno affiancati, ostacolarli è un delitto intellettuale.

Ah, se questo spezzone video venisse visto compreso e imparato a memoria, quanti disastri personali verrebbero evitati. Perchè “se le tue scelte ti hanno portato fino a qui, quanto valevano le tue scelte?”

Ottobre 29, 2025
di Fabio Palma
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8 ANNI e UNA DATA

Lo scorso 24 Ottobre, all’Università di Verona e davanti a 230 iscritti paganti, ho tenuto una conferenza di un’ora col titolo che avete letto, invitato dal prestigioso PMI (Project management Institute)

230 Project Managers ad ascoltare, davvero molto interessati, una storia di 8 anni.

Ecco la registrazione fatta col telefono. Per una volta mi sono risentito perché ero molto fiero delle tante domande alla fine ( anche post video), e perché, seguendo le mie slides, a braccio ero convinto di aver detto quasi tutto di quello che penso

Il mio pensiero, insomma. Inevitabilmente indigesto per qualcuno, minoranza però. So di essere scomodo perché, inutile girarci intorno, ho completamente preso da mio padre, zero tolleranza verso i disvalori, comportamenti scorretti, compromessi con interessi non chiari in gioco.

Ottobre 13, 2025
di Fabio Palma
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UNA BATTAGLIA DOPO L’ALTRA

Riflessioni sulla coerenza dopo aver visto un capolavoro

Da qui in poi sarà una battaglia dopo l’altra. Ogni rivoluzione inizia combattendo i demoni ma i bastardi finiscono per combattere loro stessi.

Pochi giorni fa ho visto al cinema Una battaglia dopo l’altra, costringendomi ad uscire di casa alle 1830, guidare per mezz’ora e non aspettare che il film arrivasse a casa mia su uno schermo troppo piccolo.

Sul piano della qualità audio e video, in questi decenni ci siamo abituati alla regressione. Un grande film al cinema e’ incommensurabilmente più bello e grandioso rispetto a un qualunque schermo domestico per non parlare di quello del telefono, un concerto live con un grande cantante e un grande gruppo e senza autotune significano brividi epocali ma poi in certi luoghi (vedi ippodromo) costringono a volumi per i quali non senti nulla a trenta metri dal palco, e l’MP3 è semplicemente una mannaia sulla grande musica, sia essa metal, jazz, blues, classica. C’è tantissima qualità attuale nel cinema, nella musica di ogni genere e nella letteratura, solo che pochissimi amano la qualità e lo streaming ha si’ l’enorme merito di poter far conoscere di tutto ma a prezzo di uno scadimento enorme. 

Ma questo film era l’incontro fra uno dei più grandi scrittori all time, e fra i miei dieci scrittori di culto, e uno dei più grandi registi moderni, con in aggiunta attori leggendari.

E così il film è stato un capolavoro di musica e situazioni, di riflessioni sull’incomunicabilità fra le persone, sugli ideali traditi, sul depauperamento dei sentimenti e della sensibilità in funzione del risultato atteso, sul tradimento di valori come amicizia e amore, a fronte di chi invece decide di vivere un profilo basso ma di essere coerente tutta la vita, inevitabilmente finendo ai margini, reietto, discusso e dimenticato. Perché chi è coerente ai valori di amicizia, sincerità e gratitudine viene osteggiato, dileggiato, escluso.

Quando l’amore e le passioni vengono disarcionate in nome del successo personale, cosa resta della vita? Scaglie di formaggio marcilente.

Quando manca la coerenza perché manca il coraggio, cosa può succedere?

L’allontanamento.

La coerenza è una qualità dannatamente dura da sostenere. Presuppone forza d’animo e solidità morale ma soprattutto fottersene della logica politica. In Una battaglia dopo l’altra c’è chi se ne frega delle logiche politiche, di sponsor o amministratori o dirigenti o politici o mediocri finiti al potere, le persone di qualità morale hanno altro da fare, non si abbassano all’incoerenza…ma finiscono per dimenticare le password (che incredibile metafora!!), allontanarsi dalle luci della ribalta ma essere fieri di sé stessi.

Rispetto, riconoscenza, coerenza, amore, amicizia, fiducia, sincerità.

Che valori complessi e complicati da sostenere. Se vuoi fare carriera in qualche ramo di questo albero vita sempre più pubblico per via dei social (e nel film fra le decine di scene simbolo ce n’è una che riguarda l’uso del telefono), qualcuna o tutte di queste qualità la devi affossare. Qualche volta sono stato tentato anch’io, ma posso dire che ce l’ho fatta a rimanere quello che sono, trasandato ma fermissimo su questi valori. 

Un esempio? Ho sempre detto a Bea che se domani venisse Miroslaw o Jania a chiedermi di allenarle con un probabilissimo oro olimpico come destino finale, direi di no, per qualunque cifra.

Perché siamo partiti insieme e sarei io a fare un passo indietro il giorno in cui i fatti dimostrassero inadeguatezza.

Così ho sempre avuto pochissimi amici profondi, e alcuni ormai non li frequento più a causa proprio della vita che faccio, dedicata a chi lo merita. Paul, Dodo, Antoine, Pitax…anche Teo lo sento molto, molto raramente. Teo, Matteo Della Bordella, che oggi ha 40 anni, e che è arrivato al successo anche mediatico senza tradire la propria coerenza, e so che non è stato facile.

Quindi, andate a vedere questo film, visto che capolavori letterari come Infinite Jest e Meridiano di sangue e V e Arcobaleno della gravità sono impossibili da trasferire in un film.

Perché una battaglia dopo l’altra è quella che sento di dover fare ogni giorno per rimanere coerente a quei valori. Senza cadere in tentazioni, letteralmente. 

Bob: Ehi fa attenzione.

WIlla: No. 

Sono stato Willa al quadrato per 47 anni, sono diventato Bob dal 2017 e ho a che fare con la Willa più Willa che ci sia e ho un figlio che è Willa al cubo.

Sicuro quelli che dovrebbero capire non capiranno, ma voi Willa che siete capitati su questo post…ecco, per voi vale quest’ultima citazione del film

Porco cazzo viva la revolucion.

Appendice  

E’ stato un 2025 molto più complicato del previsto, Bea si è rimessa in piedi con enorme forza mentale, personalmente ho dovuto affrontare situazioni anche politiche e dinamiche sociali per cui non sono proprio portato ed è stata anche per noi una battaglia dopo l’altra. La finale mondiale di Seoul con due 6”89 in giornata e il quarto titolo italiano sono due conclusioni che a metà Aprile sarebbero state date 1:100 dai bookmakers.

Ma entrambi in mezzo a una tempesta lunghissima abbiamo potuto contare su persone rette e di fiducia (Silvio Colnago, Sara, Tatiana, Yuri). Ero sicuro di arrivare alle qualifiche olimpiche del 2028 con 4 nomi, è rimasta Bea ed è la dimostrazione che si può arrivare in cima senza scorciatoie. Con sincerità, fiducia, rispetto, intelligenza, auto-analisi.

Una battaglia dopo l’altra, e ce ne aspettano di durissime.

Una battaglia dopo l’altra

Settembre 23, 2025
di Fabio Palma
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LA VERITA’

Rientrò a casa tardi, una sera. La madre le chiese dove fosse andata, e lei rispose con un gesto incomprensibile. Allora la madre reiterò la domanda, e lei voltò il viso, e poi si girò, e poi disse che aveva avuto da fare, e che comunque non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché lei era una ragazza seria e non c’era da preoccuparsi, per gli orari. La madre rispose che non sapeva più cosa fosse serio e cosa non lo fosse più, disse che niente le sembrava più davvero serio, oggigiorno, e allora Mad le disse che essere serio, per una donna, è qualcosa che gli uomini non possono capire, perché per gli uomini una donna seria è una donna che va a letto soltanto con chi dicono loro, cioè loro stessi, mentre una donna cerca la serietà nel tipo di contatto, e quello può essere una cosa diversa, può per esempio essere verbale, anche no, oppure anche fisico, persino fisico, come dicono gli uomini, ma che parte da un fiume inverosimile agli uomini, un fiume fatto di gorghi, mulinelli, e schiuma, tanta schiuma, mentre gli uomini corrono dietro a fiumi impetuosi da ragazzi, e poi fermi e stagnanti da adulti, quando diventano vecchi, che poi gli uomini sono vecchi quasi subito, perlomeno rispetto alle donne, che sembrano così calme, posate, e invece hanno un nucleo che brucia, dentro, lo si vede quando hanno un figlio, un uomo non potrebbe mai avere un figlio, non ne sopporterebbe neppure il dolore, del parto e delle prime settimane, un uomo vuole tutto e subito, la donna è decisa e paziente, è ragazza. Onde sconosciute attraversarono il petto della madre.
«Pensi che tuo padre fosse così, Mad?».
«No, papà era diverso, infatti se ne è andato, da questo mondo».
«Io non so più cosa pensare, di questo mondo» disse la madre.
«Non ci devi pensare» disse dolce Mad, «e poi non sarà sempre così, vedrai, mamma».
«Pensi che Dio lo migliorerà?».
«Penso che diventerà migliore» rispose Mad. «Penso che qualcuno se ne occuperà».
«A me non pare che nessuno se ne stia occupando, io vedo sempre e solo gente che corre dietro ai propri pensieri e alle proprie cose, non c’è più neanche Dio, in questo mondo». Mad guardò la madre, disse:
«È difficile, mamma, è difficile che Dio si occupi ancora di questo mondo, ha fatto abbastanza, a suo tempo, è una cosa nostra, ma vedrai che andrà meglio, vedrai. Ti va se ti leggo una favola?».
«Una favola? Da quando una figlia legge una favola a una madre?». Mad rise e disse:
«Ricordi il canto del pastore errante di Leopardi?». Rispose la madre:
«Poco. Era un pastore nel deserto, vero?».
«Ma era così triste, perché lo si vuole sempre spiegare in un certo modo, ma quello era un pastore che vedeva le stelle sfilarsi da una gigantesca collana, la più preziosa mai concepita nell’intero Universo; quello che Leopardi non scrisse è che quel pastore era lì da anni, con il suo gregge, e aveva capito le stelle, quando cadono e quando si muovono, e aveva capito il linguaggio di Dio, che è un verbo immobile se lo scruti in un attimo o distrattamente, mentre invece è una parola lenta, lunghissima. Sono frasi eterne, quelle di Dio, sennò che Dio sarebbe, un Dio non può essere mutabile e rapido come lo vorrebbero gli uomini».
«Hai ragione» rispose la madre, sedendosi. Mad le si accostò e continuò, raccontò che il pastore aveva decifrato il linguaggio di Dio, almeno un po’, gli aveva detto che la verità la si deve sfilare a poco a poco, è vezzosa e si indispettisce facilmente, persino a raccontarla; Dio stesso aveva dovuto usare molta cautela, e allora aveva deciso di usare le stelle, che agli occhi della verità apparvero discrete e rispettose, e c’era stato un accordo, fra Dio e la verità, essa si sarebbe rivelata soltanto a chi avrebbe avuto la pazienza di guardare le stelle senza aspettarsi nulla di repentino e di veloce, come un’attesa, doveva essere la ricerca della verità. La madre chiuse gli occhi e nel cielo scuro delle sue palpebre vide la verità delinearsi, aveva la voce della figlia, e si muoveva ma con grazia e affascinante. La vita le parve annunciarsi nella sua pienezza.
«Le stelle spiegarono al pastore, in otto lunghi anni, che la verità è spesso dolorosa, non è esattamente ciò che chiedono gli uomini, che non è neanche la felicità, quella tutto sommato sarebbe anche facile elargirla, ci si accontenta di poco, nella felicità, è una cosa effimera; no, le stelle dissero che la verità è comprendere e accettare che la realtà non è quello che desideriamo ma quello che riusciamo a prendere in mano senza pretese, non stringendolo ma accogliendolo, perché la vera realtà è un atomo, ci entri dentro e pensi di essere arrivato al nucleo, poi esplori il nucleo e ti accorgi che quello era solo un involucro, pensi di essere arrivato all’essenziale e invece continui ad andare giù, e sei sicuro che ci sia un centro, è ovvio, l’atomo è sferico e un centro ci deve essere, ma, e questo dissero le stelle in otto lunghi anni al pastore, tutta la vita puoi immergerti in un atomo e sempre avrai un minuscolo da scoperchiare, perché la realtà non ha fine, e la verità è accettare questo, che nella vita non c’è una fine, né dolorosa né felice, è un andare avanti lentamente, ogni giorno con curiosità, e accettare che le cose si svelino ogni giorno nuove, ogni giorno diverse, anche incomprensibili, anche diverse dal giorno prima, anche completamente diverse da come le si desidererebbe. La verità non è altro che abbandonare i propri desideri e collimarli con la realtà quotidianamente, questo perfino Dio dovette gradirlo, questo spiega perché un pastore sia un pastore e io, mamma, sono qui con te, e ti accetto, e non c’è papà e non so dove sia andato» e mentre la madre si addormentava, Mad le confidò chi fosse:
«Sai, mamma, sono un genio, ho il potere del mondo in mano, non so esattamente cosa farmene ed è come se vagassi intorno a un disegno, a dei numeri che si devono ancora aggiustare e formare un’equazione; ogni vita è il risultato di un’equazione e la mia deve essere particolarmente complicata, ho il sospetto che c’entri con la verità, che io stessa possa diventare la verità di questo mondo. Una soluzione paradossale, vero? la verità del mondo in un’unica persona, una donna, fa a pugni persino con ogni religione; di fatto devo muovermi con oculatezza, fissare delle condizioni al contorno. Oh mamma, scusami se parlo difficile, ora dormi, Mad non tornerà mai tardi inutilmente e per qualcosa di sbagliato, Mad non sarà mai in ritardo, ecco, non sarò mai in ritardo, e anticiperò tutti. Se fosse possibile conoscere fino in fondo una persona, fino al suo fondo oscuro, allora sarebbe possibile conoscere la verità di tutti ed essere padroni del mondo: nessuno può mai conoscere l’altro, c’è sempre un guscio intorno a tutti quelli che si è capaci di scoperchiare, neppure la psicologia e l’ipnosi possono arrivare al cuore di un uomo.

Su questo sto lavorando, mamma, voglio entrare nel cuore di ogni uomo ed esserne anima e cervello».

Settembre 16, 2025
di Fabio Palma
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LE FRASI

Alla mia squadra, ovviamente oggi disciolta come sali nell’acqua della vita, diedi da leggere Questa è l’acqua, il discorso di Wallace, e da vedere alcuni spezzoni del film il Procuratore 

Non a tutti e a tutte, per dir la verità. E non perché avevo preferenze, ma perché per alcuni e alcune era davvero troppo presto, sfuggivano alla sola idea di riflettere su se stessi e l’intorno. L’età della riflessione non è uguale per tutti (per me fu spensieratezza totale fino ad età MOLTO avanzata…)

Con amara sorpresa, a distanza ormai di due anni dalla fine ufficiale della squadra, non sono per niente sicuro di aver lasciato qualcosa a tutti e tutte. Superando quel confine non netto ma incontestabile che si trova fra età Ninho ed età adulta, si cambia e spesso in peggio. Arrivano obblighi concreti, non le stupide pagelle o l’insignificante maturita’, bensì le prime vere prove di vita. E la confusione regna sovrana, nell’approcciarle. Io fui in qualche modo fortunato, mi sterilizzai le riflessioni iscrivendomi a ingegneria nucleare senza neppure pensarci, letteralmente con un paio di minuti dedicati. Da Ottobre 1984 a ottobre 90 fu una vera e propria centrifuga, di fatto mi annullai tranne che per un paio di settimane all’anno, ma non ebbi modo di fare bene o male con le persone.

In generale oggi è davvero tanto diverso, addirittura già in terza media superiore si va a open day universitari, la pressione del dover scegliere e’ sempre più sostenuta e chi è più emotivo prende decisioni sballate, inevitabilmente. Finendo non poche volte per far male a se stesso, e perfino agli altri. 

In questo capolavoro di discorso, c’è davvero tutto quello che volevo trasmettere alla mia squadra, al di là della prestazione sportiva. Perché le scelte possono essere irreversibili, possono creare dei mondi nuovi, mondi in cui quello che si pensava fosse ancora fattibile non c’è più. E’ un discorso potentissimo, quello dell’avvocato messicano al procuratore americano, e credo che qualcuno e qualcuna lo avesse recepito, pur probabilmente non ricordandoselo, mentre altri e altre semplicemente o non lo videro o non lo compresero. Eppure questi minuti sono più importanti di anni di studio e insegnamenti vari

Non si prenderebbero decisioni scellerate e irreversibili se si avesse questo video sempre presente nella propria coscienza

Settembre 15, 2025
di Fabio Palma
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FIERO DI UN FATTO DI DIECI ANNI FA

Nel 2015 mi trovai coinvolto in una triste storia politica nella quale semplicemente, in una presentazione pubblica a cui ero stato invitato come Presidente dei Ragni, alzai la mano per proporre un risparmio di costi ENORME.

Gli attacchi che subii su qualche giornale locale, su un sito che aveva interesse personale in quei costi, e così via, mi fecero all’inizio male (ma solo qualche ora…) ma poi mi fecero affidare a un avvocato e mi presi delle soddisfazioni.

A distanza di dieci anni sono super fiero di non essere stato zitto, certi nomi si sono rivelati per quello che erano per tutti, e io su questo blog personale festeggio l’anniversario di quella presa di posizione onesta e coerente, che voleva far risparmiare soldi a tutti, perché lo spreco toglie sempre risorse utili

ecco uno dei tanti articoli che furono pubblicati che parla, davvero, da solo. Dopo dieci anni e nonostante un lievito di ogni costo, post covid, di almeno il 30%, rimane fuori da ogni logica, di almeno uno zero di troppo e mi viene da dire due, il budget che si voleva seguire

In particolare il computo economico prevedeva:
a) Totale rifacimento della chiodatura (Guide Alpine e materiali): Euro 25.000;
b) Sistemazione base e sentiero di accesso (prezzario regionale lavori forestali): Euro 17.000;
c) verifiche geologiche, legali, polizza assicurativa, spese tecniche e somme a disposizione per eventuale acquisizione: Euro 18.000.

Ancora quei 17.000 euro per sistemazione base e rifacimento sentiero di accesso del Nibbio ricordano il leggendario Sketch di Ficarra e Picone sul ponte dello stretto. Fantastico, però, tutto l’articolo, e altri che trovate facilmente. Leggetelo, e tristemente ridete con me

Settembre 13, 2025
di Fabio Palma
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ALLA RICERCA DI…

Per lavoro nei prossimi mesi mio figlio andrà in Corea, India, Salvador, Chad, ci si sentirà via video telefonata qualche volta.
Le sue scelte sono state sempre da me viste, osservate e rispettate, e supportate come autista fino ai suoi 18 anni, praticamente come segretario burocratico negli ultimi 7 anni ( siamo soci). Non mi è mai costato nulla, anzi, se non qualche patema, come quando se ne va in giro da solo a fare apnea o per sentieri isolati per giorni.
Forse questa sua mini conferenza, TEDx, può destare riflessioni.
Ha visto cose molto forti, di quelle che ti cambiano ( mesi nel quartiere Zacamil, con il più alto tasso di morti ammazzati per famiglia nel mondo…settimane in Chad lontano da chiunque, e così via), mentre in Italia lavora spesso su costosissimi set di moda come regista o direttore della fotografia. Ce n’è abbastanza per aver visto duemila volte più di me tutto l’arco delle umanità

Settembre 11, 2025
di Fabio Palma
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LE VOCI

Si girò nel letto, più volte. La pelle scura come del vino siciliano, quasi invisibile nel buio famelico della stanza angusta in cui giaceva il suo letto estratto dal ferro.
Randall era originale in più aspetti. Il colore, certo, visto che era figlio di figli di figli irlandesi. Il tic delle labbra, che si piegavano a ogni inizio di frase suscitando un certo ribrezzo. La camminata rapida e composta di piccoli passi compassati e frenetici, tanto che a vederlo pareva un criceto gigante.
Ma, più di tutto e soprattutto, anche se non osservabile e quindi segreto a tutti tranne che a se stesso, era il modo contorto e intricato nel quale dipanava i sui sogni.
Lui sognava doppio, e anche triplo, e, gli venne il dubbio, talvolta, anche di ulteriore molteplicità. Come quando si attraversa una strada, e, interrogati, ci troveremmo a descrivere particolari all’apparenza sfuggiti. Più vite, insomma, se consideriamo anche solo un tratto di tempo come una striscia di vita.
Aveva 11 anni quando si svegliò da un sogno ricordandone due. Dodici, quando fu in grado di trascriverne tre. Come i registi più curiosi, che girano un film con meticolosa attenzione alla scena, non otturandola ma facendola esplodere in più riprese congiunte, lasciando allo spettatore una successione di blocchi immaginari continui, così la sua testa era in grado di sognare cose diverse, storie diverse, finanche mondi diseguali e paralleli. Si svegliava, e aveva l’assoluta certezza che non fossero stati sogni distinti, uno e poi l’altro, ma proprio sceneggiati adiacenti.
A questo punto di questa storia Randall è ancora un bambino, incuriosito da un fatto personale, e poco di più.
Ma molti anni dopo qualcuno scriverà tre fogli su un professore universitario di un college di periferia, un tipo capace, con l’auto ipnosi, di far parlare se stesso con due voci distinte. Una miscela, più correttamente. Registrandosi, si sentivano frasi sovrapposte, come due canali audio in lotta di suoni. Spesso ne veniva fuori una voce gutturale e profonda e una più smilza e asciugata, e la prima raccontava cose perverse o comunque assai poco morali, mentre l’altra era meno sensazionale e incresciosa. C’erano anche occasioni in cui sogni e voci si parlavano, limpide o torbide, come due persone che avevano cose da dirsi.

Si potrebbe bollare il tutto come l’ennesima prova che molti hanno un Mr. Hyde e che il Professor Randall era semplicemente riuscito a dimostrarlo, ma le trascrizioni della voce cupa e gutturale trovate poi sul comodino dello scomparso Prof. Randall non furono considerate particolarmente preoccupanti.

Pensa a te stesso

Non fare fatica.

Il passato è passato.

Settembre 10, 2025
di Fabio Palma
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Dobbiamo far respirare l’intelligenza.


Era fitta abbastanza da costringerlo a focalizzare i suoi passi per non inciampare nei sassi del vialetto lastricato.
Il giorno prima, appena dopo, aveva acceso la candela, affiancandole un tronchetto di calcite bianca, alto venti centimetri, spezzato sopra e sotto con un taglio netto. In centro, aveva un piccolo foro.
I primi ragazzi erano arrivati alle nove meno un quarto, come ogni giorno, e gli ultimi alle nove, puntuali.
La candela aveva grumi di cera, una colonna decorata dal calore e dalla gravità. Milioni di uomini erano stati affascinati da questo. Lui aveva preso una bacinella di sabbia finissima, l’aveva bagnata, e poi aveva fatto colare quel mosto di granelli di sasso dalla stessa altezza della candela. Così si era formato un mucchietto scomposto come quello che da sempre i bambini costruiscono sull’arenile bagnato dall’acqua, là dove vanno apparentemente a morire le onde. Ne era uscito un castello dalle pareti raggrumate, vagamente barocche.
«Vedete» aveva detto ai ragazzi, «lì l’acqua ci ha messo secoli, qui il fuoco due ore, e ora io e l’acqua pochi minuti. Vedete? Le forme sono simili».
Sospirò.
«C’è della matematica, sotto. Tre mondi diversi che si dispongono secondo un ordine forse comune».
Alzò il capo. La luce rotolava sui volti di ognuno, biancastra. Qualcuno rideva, uno era incantato. I più ciondolavano il capo senza chiedere nulla, e alcuni si toccavano a vicenda. Uno piangeva.
Non potevano capirne, lo sapeva.
«Beh, non c’è matematico al mondo capace di anticiparne le forme con un calcolo giusto, sapete?».
Terminò di far colare la sabbia, poi si lavò le mani.
«No, non c’è n’è uno» aggiunse, rivolgendosi a uno degli idioti.
Più tardi, all’orario di mensa, aprì la busta e lesse la lettera. Come sempre, dava poco interesse al sapore del cibo.
Ora arrivò alla banchina del pullman, ed era ancora buio, quantunque si intravedevano i rampicanti giallastri che l’avevano come ingoiata.
Mi mancherete, magari, si disse. Chissà se io a voi.
Molti degli idioti urlavano alzando un braccio, sbattendo la testa, con la mano facendo il gesto di chiamarlo. Lui ripeté il gesto. Intanto arrivò il pullman.
«Buon giorno» fece l’autista.
«Buongiorno» fece lui.
Quando urlavano, il palmo della mano era sempre semi aperto. Come se il grido partisse dalle linee scavate nella pelle.
Dopo poche curve la luce era ormai giallastra, e i contorni delle cose sfrangiati
e tremuli. Ci sarebbero voluti giorni, per arrivare a quel posto, e si domandò se non si fosse annoiato.
Anticipò la risposta chiudendo gli occhi e iniziando quel calcolo cominciato anni prima.
I primi passaggi, quei primi passaggi.
Strisciare sui numeri, aveva capito che il segreto era quello.
Arrivava sempre a un punto, proseguiva, e poi ne era annientato. Antonj Ivanov era prigioniero di un risultato che non voleva svelarsi.
Là avrò tutto il mio tempo, si disse.
Vitalj Artchenko aveva dieci cani, nella fattoria di quella zona della Georgia, e per vivere suo padre vendeva latte, uova e patate, poi un giorno smise e andò a lavorare in fabbrica. Nel mentre, Vitalj andava a scuola, ma studiava poco, e aveva voti normali, qualcuno anche mediocre. Persino in scienze non era un fenomeno.
I suoi cani, però, sapevano contare. Uno fino a quindici, e gli altri almeno fino a cinque. E poi sapevano associare i numeri ai colori. Gli insegnò oltre cento comandi, e poi frasi intere, e per ciascuna frase dovevano fare qualcosa. Ogni pomeriggio, tutti i pomeriggi, loro si mettevano di fronte, sdraiati, e lui insegnava le cose. Avvenne fino alla fine di tutto, quando anche l’ultimo morì e lui cominciò a lavorare, insegnando in una scuola per disabili. Scrisse tutto quello che aveva fatto, impiegando oltre un anno, perché all’inizio non si ricordava, esattamente, come erano andate le cose.
Non sapendo a chi mandare lo scritto, lo tenne per sé. Qualche anno dopo, lo mise su internet.
Miro Stojkovic dipingeva sempre la sera, e la notte. Non dormiva mai, di notte. E dipingeva col buio. Di giorno dormiva poco, poi dipingeva, e vendeva quei quadri d’estate, a Dubrovnic e a Spalato, quasi sempre ai turisti. Quelli dipinti di notte li teneva per sé, perché nessuno li avrebbe sicuramente comprati. Erano tele scure dipinte di nero, con solo lievi sfumature che davano un’idea falsa di chiaro. Illuminati, affogavano lo sguardo e chiunque ne sarebbe stato inghiottito. Come se la vita ne fosse risucchiata, assorbita, e ne avesse paura.
Miro era autodidatta e aveva lasciato la scuola da ragazzo, pur avendo voti altissimi in disegno. Disegnava, di getto, qualsiasi cosa gli venisse richiesta, e qualche volta inventava. Una volta colpì tutti disegnando l’Inferno, e la gente si domandò perché non avesse mai usato il rosso, in quel disegno perfetto.
«Perché l’ho disegnato all’interno» rispose.
«In che senso?» gli chiedevano.
«Da là, disse. Là dentro è tutto buio, non c’è rosso».
Molti anni dopo, aspettando la notte, ascoltò un programma alla tv, che parlava di Universo, e certe teorie. Non ne capì molto, ma fu incuriosito da come descrissero i buchi neri. Da quello che facevano. Da quello che potevano fare. Da come morivano. E da come facevano morire le cose.

Dominique Drexler viveva alle Bahamas, da sempre. Là nessuno imponeva le cose, e nessuno avrebbe chiesto di farlo. Nessuno, anche, lo avrebbe accettato. Dominique si chiamava così per un capriccio del padre, che aveva accompagnato per anni a pescare.
Quando il padre morì, lui aveva undici anni, e l’abitudine di andare alla spiaggia. La chiamava così, e aveva delle rocce basse, da un lato, che i coralli, nei secoli, avevano forgiato con tanti piccoli archi, e barriere che la marea superava con grazia tutti i giorni e tutti i mesi dell’anno. Dominique andava lì e guardava i pesci, centinaia, che restavano intrappolati nelle lagune minuscole, e poi tornavano al mare con la marea.
Davanti alla spiaggia, la laguna era chiusa, duecento metri più in là, e il mare si sfigurava in marosi furiosi, e i pesci erano diversi, anche se simili.
Alla spiaggia le rocce formavano ventitre piccole pozze, e solo per caso, o per una curiosità che veniva dal cuore, Dominique per tre giorni si mise a contare i pesci che speravano nell’alta marea.
Il quarto giorno, arrivando ancora a contarne novantadue, come nei primi tre giorni, ebbe il sospetto che l’attesa fosse solo sua per davvero. Loro, invece, stavano lì, per scelta.
Dopo due settimane di conti, non aveva scoperto altro che non fossero, sempre e comunque, novantadue. Ogni pozza ne conteneva un numero, e la somma era sempre la stessa.
Allora tornò con un quaderno, ogni pagina un giorno, tracciò ventitre righe a pagina e scriveva il numero di pesci per ogni pozza. I pesci non erano tutti della stessa specie, ma di tre specie diverse. Ogni riga, comunque, finiva per avere un numero diverso.
Prese un altro quaderno, e divise le pagine in blocchi, e ogni blocco aveva le pagine dei giorni di una fase lunare.
Andava ancora a scuola ed erano passati tre anni quando era in grado di predire, esattamente, il numero dei pesci che avrebbero occupato la pozza della sedicesima riga. O della terza. Non faceva differenza, per lui, rispondere sull’una o sull’altra riga.
Akira Takasaki avanzò nel corridoio non si sa bene se inseguendo la scia profumata, forse troppo, della donna, o il suo incedere vagamente ritmato. O forse la testa era altrove, nonostante l’evidente importanza dell’evento. Che Akira Takasaki, per così dire, avesse spesso la testa in altro luogo, era d’altronde risaputo fin dai tempi delle scuole elementari, quando, a fronte dei primi sontuosi giudizi scolastici, soleva mostrare un’assoluta indifferenza, vorremmo dire indisposizione, verso le istituzioni, allora maestre e genitori, in seguito professori, capiufficio, uffici del personale, persone e luoghi così.
Akira Takasaki, in sostanza, si era sempre fatto i fatti suoi, ma con genialità, possiamo dire, perché di fatto aveva un’intelligenza decisamente superiore alla media, che poi, si disse negli anni, in molti ambienti di lavoro non era poi così difficile, visto che regole e burocrazie suturavano fantasia e inventiva con stupefacente efficacia. In un dettato, alle elementari, o meglio alle scuole che nel suo paese chiamavano elementari, aveva inserito un suo pensiero, che suonava così: L’intelligenza dà fastidio, perché smaschera gli errori e rivela la mediocrità. La mediocrità sta nella media, infatti le due parole iniziano per MEDI, qualcuno deve aver coniato le due parole nello stesso tempo – non era vero, tuttavia le maestre rimasero piuttosto stupite dall’utilizzo, da parte di un tappetto di nove anni, del verbo coniare – .

Pausa.
«Se sei medio sei sostituibile da un mucchio di altri medi, altrimenti perdi un sacco di tempo a rimpiazzare l’intelligente» – qui le maestre individuarono un’imprecisione sintattica – . «Inoltre a me sembra che si tenga a elogiare prima la disponibilità, poi la buona volontà, e infine la bravura. Nella fattispecie – ma dove cazzo ha trovato il termine fattispecie? commentò il Preside. Non è neanche appropriato, qui – la bravura è premiata fino a quando sei bambino, di fatti ti dicono sempre bravo! con gioia. Dopo, più avanti, è meglio se da bravo ti trasformi in ragazzo di buona volontà. Infine, sul lavoro – qui il Preside perse il controllo, sbraitando: questo pistolino non sa neanche cosa sia, il lavoro, e sentenzia! – è definitivamente meglio – eh, qui non è elegante, sottolineò la maestra dell’altra classe – se sei disponibile, perché la buona volontà sa di bontà, infatti buona e bontà si assomigliano e comunque iniziano con B – fa anche l’analisi delle parole, questo qui, sbuffò il padre di Akira, a casa dopo aver firmato due pagine di nota ai genitori firmate dal Preside – . Dunque, la propria vita, secondo la massa e la convenienza – bum! disse ridendo il maestro di ginnastica, l’unico che, sotto lo sguardo negativo di tutti, non prese troppo sul serio le esternazioni del bambino – è meglio che percorra un sentiero a tappe nel quale i traguardi siano sincronizzati all’età…, bravura, buona volontà, e disponibilità».
Pausa.
«Da notare come mio padre lavori dieci ore al giorno e mia madre, assistente al Direttore, nonostante a casa non mi sembri proprio una cima nel fare le cose, lavori anche quattordici ore al giorno, che secondo me sono in generale troppe perché certamente, nel mondo, le stesse cose, e la stessa assistenza, la potrebbe fare qualcuno o qualcuna in metà del tempo; secondo me mia madre per essere così benvoluta dal Direttore si comporta in maniera strana, poi fra l’altro a casa non azzecca un’osservazione, che assistenza potrebbe mai fare?, da quello che ho capito dà consigli sul come comprare i vestiti usati nello sport, ma lei non ha mai neppure camminato veloce, figuriamoci lo sport che per quanto ne so io, e neanche tanto perché non me lo fanno fare e ho la stanza piena di giochi statici, implicherebbe – però! – almeno una certa cognizione – ha copiato, ha copiato da qualcosa – del moto.
Pausa e sospiro. Fine.
Molti anni dopo, Akira Takasaki non era proprio un uomo qualunque, per dir la verità era forse il personaggio vivente più importante del pianeta, anche se non lo sapeva nessuno. Era quello che aveva inventato l’SMS, la famosa stringa di caratteri che si mandava ormai anche dall’Antartide, e quel corridoio, tra i più rappresentativi corridoi del mondo, lo stava portando dritto dritto all’ufficio del Dott. Mr. Sammers, potentissimo amministratore delegato di una società leader nella distribuzione dei videogiochi in Europa. Mr. Sammers aveva un piccolo, ma rovinoso, problema: la gente si stava stufando, dei videogiochi, ma lui voleva mantenere gli stessi guadagni e gli stessi volumi. Voleva inventare qualcosa, ed era sicuro che il problema fosse tra i suoi dipendenti, oziosi e maldisposti verso le novità, l’inventiva, la fantasia, cicatrizzatesi nel successo, non più desiderosi di stupire, di creare. Così Mr. Sammers, una notte, bagnato di sudore, si era svegliato con l’incubo di un ritorno alle sue umili origini di lavoratore in officina, e dal grasso nero di quell’incubo era sgorgata l’idea principe: rintracciare l’uomo che aveva inventato quella cosa che, dai cinque anni in su, aveva cambiato tutta la gente del mondo.
Così era arrivato ad Akira Takasaki, che ora, mentre vi abbiamo scritto l’introduzione, era finalmente entrato nell’ufficio bianco avorio, dando uno sguardo distratto come se fosse entrato in un cinema di periferia, e questo, dobbiamo dirlo, mise un po’ in soggezione Mr. Sammers, che da anni si sentiva inferiore soltanto a qualche Dio, e neanche a tutti. Un’altra cosa che ci siamo scordati di dire è che, a dispetto del nome, Akira Takasaki non aveva neanche gli occhi a mandorla. In Europa era arrivato da molti anni, i documenti affermavano senza ragionevole ombra di dubbio che fosse giapponese, tuttavia era alto più di un metro e ottanta, capelli scuri, lineamenti molto europei, carnagione lievemente scura, sguardo decisamente fiero con occhi nerissimi, naso da rapace e ben disegnato, mento profilato in bronzo – così aveva commentato una segretaria – . Era, insomma, un gran pezzo d’uomo, solo col carattere disdicevole.
«Lei mi dica com’era il suo ambiente di lavoro, così noi lo ricreiamo nelle mie aziende. Tutto, voglio sapere tutto… le stampe che avevate nei vostri corridoi, la sua scrivania, se c’erano flessibilità nell’orario di lavoro, tutto, Akira Takasaki, lei ci faccia da consulente e io la coprirò d’oro».
Akira Takasaki guardò di sbieco, potremmo dire, a distanza di mesi, che era proprio tutto inclinato, dalla testa ai piedi. Però non ci pensò molto su, non c’era poi proprio da pensarci, veramente.
«Mah, l’idea l’ho avuta all’autolavaggio».

«Dove lavoravo le stampe facevano schifo, comunque io non le guardo, non è il posto giusto, i quadri si devono capire, e in un’azienda capire è un lusso, di arte intendo. Beh, non solo. Se vuole le dico la frase che avevo scritto sul muro a fronte della scrivania, è di Borges, ma presumo lei non sappia chi sia Borges. Comunque è questa: Pensare, analizzare, inventare, non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza. Glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore tutto ciò, è confessare il nostro languore e la nostra barbarie. Ogni uomo deve essere capace di ogni idea».
L’amministratore delegato, dobbiamo dire, ci rimase abbastanza di sale, o basito, in gergo. Anzitutto, non aveva capito una virgola della citazione, in secon125
do luogo non aveva mai citato nessuno oltre a se stesso in vita sua, e in terzo e più incisivo aspetto, pensava di aver capito male una parola pure a prova di male interpretazione come autolavaggio. Per cui, scivolando senza volere dal suo proverbiale autocontrollo, replicò:
«Signor Akira Takasaki, cosa c’entra l’autolavaggio?».
Akira Takasaki era pronto alla domanda, e seppur non preparato alla risposta fu, dobbiamo dire, ineccepibile.
«Difficile che un ufficio dove le pareti sono biancastre, la finestra dà su un cortile chiuso, l’orario è rigido come una sbarra, le riunioni imperano, power point viene usato anche per festeggiare un compleanno, la flessibilità viene ingabbiata in procedure e regole, difficile, sa, che a qualcuno venga veramente un’idea. Così io un paio di volte al mese me ne esco a metà giornata e vado all’autolavaggio, sa, quei tunnel dove entri con la macchina conciata come sei tu al venerdì e ne esce linda come depurata di tossine, obblighi, e doveri. Beh, io me ne sono trovato uno eterno, ci vado alle 11 che non c’è mai nessuno, il benzinaio mi ci fa stare quasi mezz’ora, e lì penso. Dico la verità, ai casi miei, mica al lavoro, però quel giorno pensavo a come mandare a una ragazza che mi piaceva una lettera pur non avendo l’indirizzo ma soltanto il cellulare, rubato in coda a uno sportello di banca mentre lo dettava al commesso, e così ho avuto l’idea, poi l’ho detta il pomeriggio al capo, quello mi ha guardato capendone ben poco e chiedendomi di inserire la proposta in un certo database dove i vari progetti sono poi approvati da quello e quell’altro ancora, allora io mi sono rotto, ho scritto un mail copiando tutta l’azienda, migliaia capisce, con su descritta bene bene l’idea e anche come realizzarla, e un mese dopo l’abbiamo implementata. A margine mi hanno dato un premio di 5000 euro, ma non ho chiesto niente, io, ho solo mandato il primo sms al mondo, alla ragazza, ovvio, non mi chieda come ha fatto a riceverlo perché non capirebbe, comunque poi ci siamo innamorati, bella storia sa? Bella storia davvero».
Aveva un po’ di raffreddore, quindi tirò su di naso, aveva parlato in apnea, aveva fretta di uscire da lì, per dirla tutta. Ad Akira Takasaki la vita non piaceva a pezzi, aveva imparato a gustarla non a morsi, ma nuotandoci, a bocca aperta, un assaggio perenne e continuo, per cui quelle cose lì lo disturbavano, gli sembrava di sembrare impotente verso la vita, che era peggio che esserlo di fronte a una donna, aveva sentenziato un giorno.
Ah, già, Mr. Sammers.
Niente, non disse niente.
Per esigenze di racconto, o meglio di scheda, dovremmo scrivere qualcosa, aggiungere, fare un botta e risposta, ma la dura e cruda realtà è che Mr. Sammers non rispose nulla. Nulla. Così fu Akira Takasaki, a interferire col silenzio grigio dell’ufficio enorme. «Se è tutto, direi che me ne posso andare» disse.
Ci fu silenzio, un paio di secondi, poi a intermittenza Mr. Sammers fece sì con la testa, così Akira Takasaki si girò, e si avviò verso il più rappresentativo corridoio d’Europa.
Mr. Sammers si sedette, aprì il pc, aprì power point, una nuova presentazione, la intitolò Area di Miglioramento: l’inventiva nell’azienda, e stette un po’ lì, come sospeso, prima di scrivere la prima frase.
Dobbiamo far respirare l’intelligenza.
Poi, sotto: il prossimo 18 Dicembre riunione straordinaria avente come oggetto la stesura di un documento guida per stimolare la creatività delle persone, creando un ecosistema, nell’azienda, in grado di incrementare la dinamicità delle idee. La riunione si terrà nella sala Orione dalle 10. 00 alle 12. 30. Si raccomanda la massima puntualità.
Poi prese il cellulare e mandò un sms al figlio, avente come oggetto l’ora a cui sarebbe arrivato a casa.
Ci risulta che Takasaki sia scomparso da diciotto mesi. Ha mandato una lettera di dimissioni giovedì pomeriggio, alle 16. 55, e non si è presentato il venerdì. Pochi se ne accorsero perché è abitudine comune fissare l’attenzione solo a ciò che è utile e non a ciò che vale. Come leggere o ascoltare e non comprendere altro che non ciò che sposa propri interessi o convinzioni

Settembre 5, 2025
di Fabio Palma
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Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili?

«Sì, uno scambio».
Menestrel chiuse il libro di fisica e ci ragionò su. Non era proprio un libro di fisica, voluminoso e altisonante. Era un libro pieno di immagini, con qualche disegno scherzoso, e pochissime formule. Menestrel aveva nove anni, e un modo tutto suo di andare dietro ai pensieri.
Aveva appena capito che la luce trasportava energia, che era ora palline ora movimento impalpabile, e che tutto, in fondo, andava avanti per scambi energetici. Forse non era proprio così, però Menestrel se lo disse in quel modo, quando ripose il libro. Lo ripeté ad alta voce, come interrogato. Poi afferrò il libro vicino, e ne sfogliò le prime pagine. Parlava di medicina, quello.
Menestrel abitava e viveva a Dreux, non lontanissimo da Parigi. Una cittadina dalle case eleganti e ordinate, con vialetti puliti e intarsiati, strade strette che intercettavano a sorpresa piccole piazze, e un’aria vagamente antica che le dava un contegno storico dal sapore toscano.
Quello che mancava, veramente, era la gente. Di giorno, chiusa in due grandi fabbriche poco più in là, la sera stancamente in attesa che arrivasse la notte. Mancava, appunto, il gioco, fosse di adulti o di bambini. Mancavano le forze per andare oltre una normale routine.
Cosa facessero gli altri bambini è poco importante, per noi. Certamente erano silenziosi, perché le strade di Dreux erano mute come ali interne di una grande basilica.
Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili? Di per sé ovvi e naturali, ma succedanei secondo il destino di ognuno, e quindi disposti come gettati a casaccio da un braccio occupato a mestieri di ben altri valori?
Erano le sei di pomeriggio quando, lievemente annoiato, Menestrel ripose anche il libro dei medici, dal quale aveva assorbito qualche nozione ortopedica. Dopo, si mise a giocare. Da solo, ovviamente, perché la madre era di là, a cucinare, il padre non ancora tornato, e gli altri bambini chissà.
Prese una pallina di polistirolo e cominciò a lanciarla contro il muro. Rimbalzava, la colpiva di testa o di piede, e mirava a una porta immaginaria. Era un gioco che non piaceva alla mamma, visto le macchie sul muro, ma non aveva altro da fare.
Fu il sesto rimbalzo che gli cambiò la visione del mondo. Il polistirolo, forse ammaccato, rimbalzò con una traiettoria imprevista, Menestrel si piegò verso destra per un tiro difficile, e udì il ginocchio ruotare, o forse abbassarsi, o magari girarsi, oppure chissà. Si accasciò sul tappetino della camera, e trattenne a stento un urlo scomposto. Giusto per un pelo, perché la mamma non sentisse e lo sgridasse per tutta la sera.

Menestrel scrutò il ginocchio, già gonfio, paventando un futuro difficile, una sera brutta e cattiva, il padre che tornava dalla fabbrica e non aveva mai voglia di stare con lui, la mamma con le lacrime agli occhi, come spesso capitava quando qualcosa deragliava dal lentissimo avanzare del tempo. Menestrel si guardò il ginocchio, se lo guardò, pensando al dolore che saliva forte, come un geyser, aveva letto dei geyser, uscivano dalla terra così forti e potenti, che bello sarebbe stato un giorno vederli, da vicino, lontano da quel paese tutto ordinato e senza eruzioni; si guardò il ginocchio, il dolore era così forte da troncare il respiro, non vedeva neppure le cose, la sua stanza, così diversa, vista così, chissà come avanza il dolore, si disse, palline di energia? Forse onde, onde di energia, sì, era una marea dolorosa, quella, una volta, solo una volta lo avevano portato al mare, una distesa d’acqua così grande che non aveva neanche osato toccare, con una nebbia impalpabile che aveva spostato l’orizzonte fuori da ogni sguardo ribelle, si mise a pensare, a pensare così forte che sentì l’energia del pensiero defluire, un’onda anche quella, le mani entrambe intrecciate su quel ginocchio, come in preghiera, il pensiero era andato verso le dita forse in piccole palline, in quello striminzito ma infinito circuito che è il percorso del sangue, e da lì chissà, Menestrel non l’avrebbe mai saputo spiegare, neanche molti anni dopo, quasi sette, quando già aveva guarito così tanti malanni che la gente aveva cominciato a mormorare e a parlarne, qualcuno anche in maniera sospetta, in fondo è una fortuna che certe cose accadano adesso, un tempo chissà, forse l’avrebbero bruciato, questo bambino, ma in fondo bruciano anche adesso, ora scottano, ti marchiano, in fondo è la stessa cosa, Menestrel si alzò una sera di novembre col ginocchio senza un dolore, attendendo con noia la solita cena, una zuppa e poi a letto, solitamente senza un pensiero, e invece quella sera la mente sfavillante di domande e risposte, ora sapeva cosa fare, della vita e di ogni sua diramazione, del tempo libero e di quello occupato, quando la mamma spense la luce alzò le mani e le vide brillare, lì, nella stanza buia del secondo piano di una delle tante case uguali di Dreux. Il paese dove niente era una domanda e dove nessuno se ne fece troppe quando, anni dopo, Menestrel se ne andò. Niente di diverso, rispetto e riconoscenza non sono mai stati valori comuni, usa chi ti serve e dimenticalo quando vuoi, è una legge quasi universale. Quello che accadde, però, fu registrato pochi mesi dopo, in un ospedale di Parigi, dove specialisti e professori cominciarono ad accogliere troppa gente da quella Dreux, da quella periferia. Tutti afflitti nella testa e sottopelle, come se mancasse del tessuto, o della linfa. Tutti doloranti, ricordi brucianti di un incontro che avevano usato e non capito.