Fabio Palma

Infinite jest

Settembre 23, 2025
di Fabio Palma
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LA VERITA’

Rientrò a casa tardi, una sera. La madre le chiese dove fosse andata, e lei rispose con un gesto incomprensibile. Allora la madre reiterò la domanda, e lei voltò il viso, e poi si girò, e poi disse che aveva avuto da fare, e che comunque non avrebbe dovuto preoccuparsi, perché lei era una ragazza seria e non c’era da preoccuparsi, per gli orari. La madre rispose che non sapeva più cosa fosse serio e cosa non lo fosse più, disse che niente le sembrava più davvero serio, oggigiorno, e allora Mad le disse che essere serio, per una donna, è qualcosa che gli uomini non possono capire, perché per gli uomini una donna seria è una donna che va a letto soltanto con chi dicono loro, cioè loro stessi, mentre una donna cerca la serietà nel tipo di contatto, e quello può essere una cosa diversa, può per esempio essere verbale, anche no, oppure anche fisico, persino fisico, come dicono gli uomini, ma che parte da un fiume inverosimile agli uomini, un fiume fatto di gorghi, mulinelli, e schiuma, tanta schiuma, mentre gli uomini corrono dietro a fiumi impetuosi da ragazzi, e poi fermi e stagnanti da adulti, quando diventano vecchi, che poi gli uomini sono vecchi quasi subito, perlomeno rispetto alle donne, che sembrano così calme, posate, e invece hanno un nucleo che brucia, dentro, lo si vede quando hanno un figlio, un uomo non potrebbe mai avere un figlio, non ne sopporterebbe neppure il dolore, del parto e delle prime settimane, un uomo vuole tutto e subito, la donna è decisa e paziente, è ragazza. Onde sconosciute attraversarono il petto della madre.
«Pensi che tuo padre fosse così, Mad?».
«No, papà era diverso, infatti se ne è andato, da questo mondo».
«Io non so più cosa pensare, di questo mondo» disse la madre.
«Non ci devi pensare» disse dolce Mad, «e poi non sarà sempre così, vedrai, mamma».
«Pensi che Dio lo migliorerà?».
«Penso che diventerà migliore» rispose Mad. «Penso che qualcuno se ne occuperà».
«A me non pare che nessuno se ne stia occupando, io vedo sempre e solo gente che corre dietro ai propri pensieri e alle proprie cose, non c’è più neanche Dio, in questo mondo». Mad guardò la madre, disse:
«È difficile, mamma, è difficile che Dio si occupi ancora di questo mondo, ha fatto abbastanza, a suo tempo, è una cosa nostra, ma vedrai che andrà meglio, vedrai. Ti va se ti leggo una favola?».
«Una favola? Da quando una figlia legge una favola a una madre?». Mad rise e disse:
«Ricordi il canto del pastore errante di Leopardi?». Rispose la madre:
«Poco. Era un pastore nel deserto, vero?».
«Ma era così triste, perché lo si vuole sempre spiegare in un certo modo, ma quello era un pastore che vedeva le stelle sfilarsi da una gigantesca collana, la più preziosa mai concepita nell’intero Universo; quello che Leopardi non scrisse è che quel pastore era lì da anni, con il suo gregge, e aveva capito le stelle, quando cadono e quando si muovono, e aveva capito il linguaggio di Dio, che è un verbo immobile se lo scruti in un attimo o distrattamente, mentre invece è una parola lenta, lunghissima. Sono frasi eterne, quelle di Dio, sennò che Dio sarebbe, un Dio non può essere mutabile e rapido come lo vorrebbero gli uomini».
«Hai ragione» rispose la madre, sedendosi. Mad le si accostò e continuò, raccontò che il pastore aveva decifrato il linguaggio di Dio, almeno un po’, gli aveva detto che la verità la si deve sfilare a poco a poco, è vezzosa e si indispettisce facilmente, persino a raccontarla; Dio stesso aveva dovuto usare molta cautela, e allora aveva deciso di usare le stelle, che agli occhi della verità apparvero discrete e rispettose, e c’era stato un accordo, fra Dio e la verità, essa si sarebbe rivelata soltanto a chi avrebbe avuto la pazienza di guardare le stelle senza aspettarsi nulla di repentino e di veloce, come un’attesa, doveva essere la ricerca della verità. La madre chiuse gli occhi e nel cielo scuro delle sue palpebre vide la verità delinearsi, aveva la voce della figlia, e si muoveva ma con grazia e affascinante. La vita le parve annunciarsi nella sua pienezza.
«Le stelle spiegarono al pastore, in otto lunghi anni, che la verità è spesso dolorosa, non è esattamente ciò che chiedono gli uomini, che non è neanche la felicità, quella tutto sommato sarebbe anche facile elargirla, ci si accontenta di poco, nella felicità, è una cosa effimera; no, le stelle dissero che la verità è comprendere e accettare che la realtà non è quello che desideriamo ma quello che riusciamo a prendere in mano senza pretese, non stringendolo ma accogliendolo, perché la vera realtà è un atomo, ci entri dentro e pensi di essere arrivato al nucleo, poi esplori il nucleo e ti accorgi che quello era solo un involucro, pensi di essere arrivato all’essenziale e invece continui ad andare giù, e sei sicuro che ci sia un centro, è ovvio, l’atomo è sferico e un centro ci deve essere, ma, e questo dissero le stelle in otto lunghi anni al pastore, tutta la vita puoi immergerti in un atomo e sempre avrai un minuscolo da scoperchiare, perché la realtà non ha fine, e la verità è accettare questo, che nella vita non c’è una fine, né dolorosa né felice, è un andare avanti lentamente, ogni giorno con curiosità, e accettare che le cose si svelino ogni giorno nuove, ogni giorno diverse, anche incomprensibili, anche diverse dal giorno prima, anche completamente diverse da come le si desidererebbe. La verità non è altro che abbandonare i propri desideri e collimarli con la realtà quotidianamente, questo perfino Dio dovette gradirlo, questo spiega perché un pastore sia un pastore e io, mamma, sono qui con te, e ti accetto, e non c’è papà e non so dove sia andato» e mentre la madre si addormentava, Mad le confidò chi fosse:
«Sai, mamma, sono un genio, ho il potere del mondo in mano, non so esattamente cosa farmene ed è come se vagassi intorno a un disegno, a dei numeri che si devono ancora aggiustare e formare un’equazione; ogni vita è il risultato di un’equazione e la mia deve essere particolarmente complicata, ho il sospetto che c’entri con la verità, che io stessa possa diventare la verità di questo mondo. Una soluzione paradossale, vero? la verità del mondo in un’unica persona, una donna, fa a pugni persino con ogni religione; di fatto devo muovermi con oculatezza, fissare delle condizioni al contorno. Oh mamma, scusami se parlo difficile, ora dormi, Mad non tornerà mai tardi inutilmente e per qualcosa di sbagliato, Mad non sarà mai in ritardo, ecco, non sarò mai in ritardo, e anticiperò tutti. Se fosse possibile conoscere fino in fondo una persona, fino al suo fondo oscuro, allora sarebbe possibile conoscere la verità di tutti ed essere padroni del mondo: nessuno può mai conoscere l’altro, c’è sempre un guscio intorno a tutti quelli che si è capaci di scoperchiare, neppure la psicologia e l’ipnosi possono arrivare al cuore di un uomo.

Su questo sto lavorando, mamma, voglio entrare nel cuore di ogni uomo ed esserne anima e cervello».

Settembre 16, 2025
di Fabio Palma
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LE FRASI

Alla mia squadra, ovviamente oggi disciolta come sali nell’acqua della vita, diedi da leggere Questa è l’acqua, il discorso di Wallace, e da vedere alcuni spezzoni del film il Procuratore 

Non a tutti e a tutte, per dir la verità. E non perché avevo preferenze, ma perché per alcuni e alcune era davvero troppo presto, sfuggivano alla sola idea di riflettere su se stessi e l’intorno. L’età della riflessione non è uguale per tutti (per me fu spensieratezza totale fino ad età MOLTO avanzata…)

Con amara sorpresa, a distanza ormai di due anni dalla fine ufficiale della squadra, non sono per niente sicuro di aver lasciato qualcosa a tutti e tutte. Superando quel confine non netto ma incontestabile che si trova fra età Ninho ed età adulta, si cambia e spesso in peggio. Arrivano obblighi concreti, non le stupide pagelle o l’insignificante maturita’, bensì le prime vere prove di vita. E la confusione regna sovrana, nell’approcciarle. Io fui in qualche modo fortunato, mi sterilizzai le riflessioni iscrivendomi a ingegneria nucleare senza neppure pensarci, letteralmente con un paio di minuti dedicati. Da Ottobre 1984 a ottobre 90 fu una vera e propria centrifuga, di fatto mi annullai tranne che per un paio di settimane all’anno, ma non ebbi modo di fare bene o male con le persone.

In generale oggi è davvero tanto diverso, addirittura già in terza media superiore si va a open day universitari, la pressione del dover scegliere e’ sempre più sostenuta e chi è più emotivo prende decisioni sballate, inevitabilmente. Finendo non poche volte per far male a se stesso, e perfino agli altri. 

In questo capolavoro di discorso, c’è davvero tutto quello che volevo trasmettere alla mia squadra, al di là della prestazione sportiva. Perché le scelte possono essere irreversibili, possono creare dei mondi nuovi, mondi in cui quello che si pensava fosse ancora fattibile non c’è più. E’ un discorso potentissimo, quello dell’avvocato messicano al procuratore americano, e credo che qualcuno e qualcuna lo avesse recepito, pur probabilmente non ricordandoselo, mentre altri e altre semplicemente o non lo videro o non lo compresero. Eppure questi minuti sono più importanti di anni di studio e insegnamenti vari

Non si prenderebbero decisioni scellerate e irreversibili se si avesse questo video sempre presente nella propria coscienza

Settembre 15, 2025
di Fabio Palma
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FIERO DI UN FATTO DI DIECI ANNI FA

Nel 2015 mi trovai coinvolto in una triste storia politica nella quale semplicemente, in una presentazione pubblica a cui ero stato invitato come Presidente dei Ragni, alzai la mano per proporre un risparmio di costi ENORME.

Gli attacchi che subii su qualche giornale locale, su un sito che aveva interesse personale in quei costi, e così via, mi fecero all’inizio male (ma solo qualche ora…) ma poi mi fecero affidare a un avvocato e mi presi delle soddisfazioni.

A distanza di dieci anni sono super fiero di non essere stato zitto, certi nomi si sono rivelati per quello che erano per tutti, e io su questo blog personale festeggio l’anniversario di quella presa di posizione onesta e coerente, che voleva far risparmiare soldi a tutti, perché lo spreco toglie sempre risorse utili

ecco uno dei tanti articoli che furono pubblicati che parla, davvero, da solo. Dopo dieci anni e nonostante un lievito di ogni costo, post covid, di almeno il 30%, rimane fuori da ogni logica, di almeno uno zero di troppo e mi viene da dire due, il budget che si voleva seguire

In particolare il computo economico prevedeva:
a) Totale rifacimento della chiodatura (Guide Alpine e materiali): Euro 25.000;
b) Sistemazione base e sentiero di accesso (prezzario regionale lavori forestali): Euro 17.000;
c) verifiche geologiche, legali, polizza assicurativa, spese tecniche e somme a disposizione per eventuale acquisizione: Euro 18.000.

Ancora quei 17.000 euro per sistemazione base e rifacimento sentiero di accesso del Nibbio ricordano il leggendario Sketch di Ficarra e Picone sul ponte dello stretto. Fantastico, però, tutto l’articolo, e altri che trovate facilmente. Leggetelo, e tristemente ridete con me

Settembre 13, 2025
di Fabio Palma
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ALLA RICERCA DI…

Per lavoro nei prossimi mesi mio figlio andrà in Corea, India, Salvador, Chad, ci si sentirà via video telefonata qualche volta.
Le sue scelte sono state sempre da me viste, osservate e rispettate, e supportate come autista fino ai suoi 18 anni, praticamente come segretario burocratico negli ultimi 7 anni ( siamo soci). Non mi è mai costato nulla, anzi, se non qualche patema, come quando se ne va in giro da solo a fare apnea o per sentieri isolati per giorni.
Forse questa sua mini conferenza, TEDx, può destare riflessioni.
Ha visto cose molto forti, di quelle che ti cambiano ( mesi nel quartiere Zacamil, con il più alto tasso di morti ammazzati per famiglia nel mondo…settimane in Chad lontano da chiunque, e così via), mentre in Italia lavora spesso su costosissimi set di moda come regista o direttore della fotografia. Ce n’è abbastanza per aver visto duemila volte più di me tutto l’arco delle umanità

Settembre 11, 2025
di Fabio Palma
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LE VOCI

Si girò nel letto, più volte. La pelle scura come del vino siciliano, quasi invisibile nel buio famelico della stanza angusta in cui giaceva il suo letto estratto dal ferro.
Randall era originale in più aspetti. Il colore, certo, visto che era figlio di figli di figli irlandesi. Il tic delle labbra, che si piegavano a ogni inizio di frase suscitando un certo ribrezzo. La camminata rapida e composta di piccoli passi compassati e frenetici, tanto che a vederlo pareva un criceto gigante.
Ma, più di tutto e soprattutto, anche se non osservabile e quindi segreto a tutti tranne che a se stesso, era il modo contorto e intricato nel quale dipanava i sui sogni.
Lui sognava doppio, e anche triplo, e, gli venne il dubbio, talvolta, anche di ulteriore molteplicità. Come quando si attraversa una strada, e, interrogati, ci troveremmo a descrivere particolari all’apparenza sfuggiti. Più vite, insomma, se consideriamo anche solo un tratto di tempo come una striscia di vita.
Aveva 11 anni quando si svegliò da un sogno ricordandone due. Dodici, quando fu in grado di trascriverne tre. Come i registi più curiosi, che girano un film con meticolosa attenzione alla scena, non otturandola ma facendola esplodere in più riprese congiunte, lasciando allo spettatore una successione di blocchi immaginari continui, così la sua testa era in grado di sognare cose diverse, storie diverse, finanche mondi diseguali e paralleli. Si svegliava, e aveva l’assoluta certezza che non fossero stati sogni distinti, uno e poi l’altro, ma proprio sceneggiati adiacenti.
A questo punto di questa storia Randall è ancora un bambino, incuriosito da un fatto personale, e poco di più.
Ma molti anni dopo qualcuno scriverà tre fogli su un professore universitario di un college di periferia, un tipo capace, con l’auto ipnosi, di far parlare se stesso con due voci distinte. Una miscela, più correttamente. Registrandosi, si sentivano frasi sovrapposte, come due canali audio in lotta di suoni. Spesso ne veniva fuori una voce gutturale e profonda e una più smilza e asciugata, e la prima raccontava cose perverse o comunque assai poco morali, mentre l’altra era meno sensazionale e incresciosa. C’erano anche occasioni in cui sogni e voci si parlavano, limpide o torbide, come due persone che avevano cose da dirsi.

Si potrebbe bollare il tutto come l’ennesima prova che molti hanno un Mr. Hyde e che il Professor Randall era semplicemente riuscito a dimostrarlo, ma le trascrizioni della voce cupa e gutturale trovate poi sul comodino dello scomparso Prof. Randall non furono considerate particolarmente preoccupanti.

Pensa a te stesso

Non fare fatica.

Il passato è passato.

Settembre 10, 2025
di Fabio Palma
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Dobbiamo far respirare l’intelligenza.


Era fitta abbastanza da costringerlo a focalizzare i suoi passi per non inciampare nei sassi del vialetto lastricato.
Il giorno prima, appena dopo, aveva acceso la candela, affiancandole un tronchetto di calcite bianca, alto venti centimetri, spezzato sopra e sotto con un taglio netto. In centro, aveva un piccolo foro.
I primi ragazzi erano arrivati alle nove meno un quarto, come ogni giorno, e gli ultimi alle nove, puntuali.
La candela aveva grumi di cera, una colonna decorata dal calore e dalla gravità. Milioni di uomini erano stati affascinati da questo. Lui aveva preso una bacinella di sabbia finissima, l’aveva bagnata, e poi aveva fatto colare quel mosto di granelli di sasso dalla stessa altezza della candela. Così si era formato un mucchietto scomposto come quello che da sempre i bambini costruiscono sull’arenile bagnato dall’acqua, là dove vanno apparentemente a morire le onde. Ne era uscito un castello dalle pareti raggrumate, vagamente barocche.
«Vedete» aveva detto ai ragazzi, «lì l’acqua ci ha messo secoli, qui il fuoco due ore, e ora io e l’acqua pochi minuti. Vedete? Le forme sono simili».
Sospirò.
«C’è della matematica, sotto. Tre mondi diversi che si dispongono secondo un ordine forse comune».
Alzò il capo. La luce rotolava sui volti di ognuno, biancastra. Qualcuno rideva, uno era incantato. I più ciondolavano il capo senza chiedere nulla, e alcuni si toccavano a vicenda. Uno piangeva.
Non potevano capirne, lo sapeva.
«Beh, non c’è matematico al mondo capace di anticiparne le forme con un calcolo giusto, sapete?».
Terminò di far colare la sabbia, poi si lavò le mani.
«No, non c’è n’è uno» aggiunse, rivolgendosi a uno degli idioti.
Più tardi, all’orario di mensa, aprì la busta e lesse la lettera. Come sempre, dava poco interesse al sapore del cibo.
Ora arrivò alla banchina del pullman, ed era ancora buio, quantunque si intravedevano i rampicanti giallastri che l’avevano come ingoiata.
Mi mancherete, magari, si disse. Chissà se io a voi.
Molti degli idioti urlavano alzando un braccio, sbattendo la testa, con la mano facendo il gesto di chiamarlo. Lui ripeté il gesto. Intanto arrivò il pullman.
«Buon giorno» fece l’autista.
«Buongiorno» fece lui.
Quando urlavano, il palmo della mano era sempre semi aperto. Come se il grido partisse dalle linee scavate nella pelle.
Dopo poche curve la luce era ormai giallastra, e i contorni delle cose sfrangiati
e tremuli. Ci sarebbero voluti giorni, per arrivare a quel posto, e si domandò se non si fosse annoiato.
Anticipò la risposta chiudendo gli occhi e iniziando quel calcolo cominciato anni prima.
I primi passaggi, quei primi passaggi.
Strisciare sui numeri, aveva capito che il segreto era quello.
Arrivava sempre a un punto, proseguiva, e poi ne era annientato. Antonj Ivanov era prigioniero di un risultato che non voleva svelarsi.
Là avrò tutto il mio tempo, si disse.
Vitalj Artchenko aveva dieci cani, nella fattoria di quella zona della Georgia, e per vivere suo padre vendeva latte, uova e patate, poi un giorno smise e andò a lavorare in fabbrica. Nel mentre, Vitalj andava a scuola, ma studiava poco, e aveva voti normali, qualcuno anche mediocre. Persino in scienze non era un fenomeno.
I suoi cani, però, sapevano contare. Uno fino a quindici, e gli altri almeno fino a cinque. E poi sapevano associare i numeri ai colori. Gli insegnò oltre cento comandi, e poi frasi intere, e per ciascuna frase dovevano fare qualcosa. Ogni pomeriggio, tutti i pomeriggi, loro si mettevano di fronte, sdraiati, e lui insegnava le cose. Avvenne fino alla fine di tutto, quando anche l’ultimo morì e lui cominciò a lavorare, insegnando in una scuola per disabili. Scrisse tutto quello che aveva fatto, impiegando oltre un anno, perché all’inizio non si ricordava, esattamente, come erano andate le cose.
Non sapendo a chi mandare lo scritto, lo tenne per sé. Qualche anno dopo, lo mise su internet.
Miro Stojkovic dipingeva sempre la sera, e la notte. Non dormiva mai, di notte. E dipingeva col buio. Di giorno dormiva poco, poi dipingeva, e vendeva quei quadri d’estate, a Dubrovnic e a Spalato, quasi sempre ai turisti. Quelli dipinti di notte li teneva per sé, perché nessuno li avrebbe sicuramente comprati. Erano tele scure dipinte di nero, con solo lievi sfumature che davano un’idea falsa di chiaro. Illuminati, affogavano lo sguardo e chiunque ne sarebbe stato inghiottito. Come se la vita ne fosse risucchiata, assorbita, e ne avesse paura.
Miro era autodidatta e aveva lasciato la scuola da ragazzo, pur avendo voti altissimi in disegno. Disegnava, di getto, qualsiasi cosa gli venisse richiesta, e qualche volta inventava. Una volta colpì tutti disegnando l’Inferno, e la gente si domandò perché non avesse mai usato il rosso, in quel disegno perfetto.
«Perché l’ho disegnato all’interno» rispose.
«In che senso?» gli chiedevano.
«Da là, disse. Là dentro è tutto buio, non c’è rosso».
Molti anni dopo, aspettando la notte, ascoltò un programma alla tv, che parlava di Universo, e certe teorie. Non ne capì molto, ma fu incuriosito da come descrissero i buchi neri. Da quello che facevano. Da quello che potevano fare. Da come morivano. E da come facevano morire le cose.

Dominique Drexler viveva alle Bahamas, da sempre. Là nessuno imponeva le cose, e nessuno avrebbe chiesto di farlo. Nessuno, anche, lo avrebbe accettato. Dominique si chiamava così per un capriccio del padre, che aveva accompagnato per anni a pescare.
Quando il padre morì, lui aveva undici anni, e l’abitudine di andare alla spiaggia. La chiamava così, e aveva delle rocce basse, da un lato, che i coralli, nei secoli, avevano forgiato con tanti piccoli archi, e barriere che la marea superava con grazia tutti i giorni e tutti i mesi dell’anno. Dominique andava lì e guardava i pesci, centinaia, che restavano intrappolati nelle lagune minuscole, e poi tornavano al mare con la marea.
Davanti alla spiaggia, la laguna era chiusa, duecento metri più in là, e il mare si sfigurava in marosi furiosi, e i pesci erano diversi, anche se simili.
Alla spiaggia le rocce formavano ventitre piccole pozze, e solo per caso, o per una curiosità che veniva dal cuore, Dominique per tre giorni si mise a contare i pesci che speravano nell’alta marea.
Il quarto giorno, arrivando ancora a contarne novantadue, come nei primi tre giorni, ebbe il sospetto che l’attesa fosse solo sua per davvero. Loro, invece, stavano lì, per scelta.
Dopo due settimane di conti, non aveva scoperto altro che non fossero, sempre e comunque, novantadue. Ogni pozza ne conteneva un numero, e la somma era sempre la stessa.
Allora tornò con un quaderno, ogni pagina un giorno, tracciò ventitre righe a pagina e scriveva il numero di pesci per ogni pozza. I pesci non erano tutti della stessa specie, ma di tre specie diverse. Ogni riga, comunque, finiva per avere un numero diverso.
Prese un altro quaderno, e divise le pagine in blocchi, e ogni blocco aveva le pagine dei giorni di una fase lunare.
Andava ancora a scuola ed erano passati tre anni quando era in grado di predire, esattamente, il numero dei pesci che avrebbero occupato la pozza della sedicesima riga. O della terza. Non faceva differenza, per lui, rispondere sull’una o sull’altra riga.
Akira Takasaki avanzò nel corridoio non si sa bene se inseguendo la scia profumata, forse troppo, della donna, o il suo incedere vagamente ritmato. O forse la testa era altrove, nonostante l’evidente importanza dell’evento. Che Akira Takasaki, per così dire, avesse spesso la testa in altro luogo, era d’altronde risaputo fin dai tempi delle scuole elementari, quando, a fronte dei primi sontuosi giudizi scolastici, soleva mostrare un’assoluta indifferenza, vorremmo dire indisposizione, verso le istituzioni, allora maestre e genitori, in seguito professori, capiufficio, uffici del personale, persone e luoghi così.
Akira Takasaki, in sostanza, si era sempre fatto i fatti suoi, ma con genialità, possiamo dire, perché di fatto aveva un’intelligenza decisamente superiore alla media, che poi, si disse negli anni, in molti ambienti di lavoro non era poi così difficile, visto che regole e burocrazie suturavano fantasia e inventiva con stupefacente efficacia. In un dettato, alle elementari, o meglio alle scuole che nel suo paese chiamavano elementari, aveva inserito un suo pensiero, che suonava così: L’intelligenza dà fastidio, perché smaschera gli errori e rivela la mediocrità. La mediocrità sta nella media, infatti le due parole iniziano per MEDI, qualcuno deve aver coniato le due parole nello stesso tempo – non era vero, tuttavia le maestre rimasero piuttosto stupite dall’utilizzo, da parte di un tappetto di nove anni, del verbo coniare – .

Pausa.
«Se sei medio sei sostituibile da un mucchio di altri medi, altrimenti perdi un sacco di tempo a rimpiazzare l’intelligente» – qui le maestre individuarono un’imprecisione sintattica – . «Inoltre a me sembra che si tenga a elogiare prima la disponibilità, poi la buona volontà, e infine la bravura. Nella fattispecie – ma dove cazzo ha trovato il termine fattispecie? commentò il Preside. Non è neanche appropriato, qui – la bravura è premiata fino a quando sei bambino, di fatti ti dicono sempre bravo! con gioia. Dopo, più avanti, è meglio se da bravo ti trasformi in ragazzo di buona volontà. Infine, sul lavoro – qui il Preside perse il controllo, sbraitando: questo pistolino non sa neanche cosa sia, il lavoro, e sentenzia! – è definitivamente meglio – eh, qui non è elegante, sottolineò la maestra dell’altra classe – se sei disponibile, perché la buona volontà sa di bontà, infatti buona e bontà si assomigliano e comunque iniziano con B – fa anche l’analisi delle parole, questo qui, sbuffò il padre di Akira, a casa dopo aver firmato due pagine di nota ai genitori firmate dal Preside – . Dunque, la propria vita, secondo la massa e la convenienza – bum! disse ridendo il maestro di ginnastica, l’unico che, sotto lo sguardo negativo di tutti, non prese troppo sul serio le esternazioni del bambino – è meglio che percorra un sentiero a tappe nel quale i traguardi siano sincronizzati all’età…, bravura, buona volontà, e disponibilità».
Pausa.
«Da notare come mio padre lavori dieci ore al giorno e mia madre, assistente al Direttore, nonostante a casa non mi sembri proprio una cima nel fare le cose, lavori anche quattordici ore al giorno, che secondo me sono in generale troppe perché certamente, nel mondo, le stesse cose, e la stessa assistenza, la potrebbe fare qualcuno o qualcuna in metà del tempo; secondo me mia madre per essere così benvoluta dal Direttore si comporta in maniera strana, poi fra l’altro a casa non azzecca un’osservazione, che assistenza potrebbe mai fare?, da quello che ho capito dà consigli sul come comprare i vestiti usati nello sport, ma lei non ha mai neppure camminato veloce, figuriamoci lo sport che per quanto ne so io, e neanche tanto perché non me lo fanno fare e ho la stanza piena di giochi statici, implicherebbe – però! – almeno una certa cognizione – ha copiato, ha copiato da qualcosa – del moto.
Pausa e sospiro. Fine.
Molti anni dopo, Akira Takasaki non era proprio un uomo qualunque, per dir la verità era forse il personaggio vivente più importante del pianeta, anche se non lo sapeva nessuno. Era quello che aveva inventato l’SMS, la famosa stringa di caratteri che si mandava ormai anche dall’Antartide, e quel corridoio, tra i più rappresentativi corridoi del mondo, lo stava portando dritto dritto all’ufficio del Dott. Mr. Sammers, potentissimo amministratore delegato di una società leader nella distribuzione dei videogiochi in Europa. Mr. Sammers aveva un piccolo, ma rovinoso, problema: la gente si stava stufando, dei videogiochi, ma lui voleva mantenere gli stessi guadagni e gli stessi volumi. Voleva inventare qualcosa, ed era sicuro che il problema fosse tra i suoi dipendenti, oziosi e maldisposti verso le novità, l’inventiva, la fantasia, cicatrizzatesi nel successo, non più desiderosi di stupire, di creare. Così Mr. Sammers, una notte, bagnato di sudore, si era svegliato con l’incubo di un ritorno alle sue umili origini di lavoratore in officina, e dal grasso nero di quell’incubo era sgorgata l’idea principe: rintracciare l’uomo che aveva inventato quella cosa che, dai cinque anni in su, aveva cambiato tutta la gente del mondo.
Così era arrivato ad Akira Takasaki, che ora, mentre vi abbiamo scritto l’introduzione, era finalmente entrato nell’ufficio bianco avorio, dando uno sguardo distratto come se fosse entrato in un cinema di periferia, e questo, dobbiamo dirlo, mise un po’ in soggezione Mr. Sammers, che da anni si sentiva inferiore soltanto a qualche Dio, e neanche a tutti. Un’altra cosa che ci siamo scordati di dire è che, a dispetto del nome, Akira Takasaki non aveva neanche gli occhi a mandorla. In Europa era arrivato da molti anni, i documenti affermavano senza ragionevole ombra di dubbio che fosse giapponese, tuttavia era alto più di un metro e ottanta, capelli scuri, lineamenti molto europei, carnagione lievemente scura, sguardo decisamente fiero con occhi nerissimi, naso da rapace e ben disegnato, mento profilato in bronzo – così aveva commentato una segretaria – . Era, insomma, un gran pezzo d’uomo, solo col carattere disdicevole.
«Lei mi dica com’era il suo ambiente di lavoro, così noi lo ricreiamo nelle mie aziende. Tutto, voglio sapere tutto… le stampe che avevate nei vostri corridoi, la sua scrivania, se c’erano flessibilità nell’orario di lavoro, tutto, Akira Takasaki, lei ci faccia da consulente e io la coprirò d’oro».
Akira Takasaki guardò di sbieco, potremmo dire, a distanza di mesi, che era proprio tutto inclinato, dalla testa ai piedi. Però non ci pensò molto su, non c’era poi proprio da pensarci, veramente.
«Mah, l’idea l’ho avuta all’autolavaggio».

«Dove lavoravo le stampe facevano schifo, comunque io non le guardo, non è il posto giusto, i quadri si devono capire, e in un’azienda capire è un lusso, di arte intendo. Beh, non solo. Se vuole le dico la frase che avevo scritto sul muro a fronte della scrivania, è di Borges, ma presumo lei non sappia chi sia Borges. Comunque è questa: Pensare, analizzare, inventare, non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza. Glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione, tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore tutto ciò, è confessare il nostro languore e la nostra barbarie. Ogni uomo deve essere capace di ogni idea».
L’amministratore delegato, dobbiamo dire, ci rimase abbastanza di sale, o basito, in gergo. Anzitutto, non aveva capito una virgola della citazione, in secon125
do luogo non aveva mai citato nessuno oltre a se stesso in vita sua, e in terzo e più incisivo aspetto, pensava di aver capito male una parola pure a prova di male interpretazione come autolavaggio. Per cui, scivolando senza volere dal suo proverbiale autocontrollo, replicò:
«Signor Akira Takasaki, cosa c’entra l’autolavaggio?».
Akira Takasaki era pronto alla domanda, e seppur non preparato alla risposta fu, dobbiamo dire, ineccepibile.
«Difficile che un ufficio dove le pareti sono biancastre, la finestra dà su un cortile chiuso, l’orario è rigido come una sbarra, le riunioni imperano, power point viene usato anche per festeggiare un compleanno, la flessibilità viene ingabbiata in procedure e regole, difficile, sa, che a qualcuno venga veramente un’idea. Così io un paio di volte al mese me ne esco a metà giornata e vado all’autolavaggio, sa, quei tunnel dove entri con la macchina conciata come sei tu al venerdì e ne esce linda come depurata di tossine, obblighi, e doveri. Beh, io me ne sono trovato uno eterno, ci vado alle 11 che non c’è mai nessuno, il benzinaio mi ci fa stare quasi mezz’ora, e lì penso. Dico la verità, ai casi miei, mica al lavoro, però quel giorno pensavo a come mandare a una ragazza che mi piaceva una lettera pur non avendo l’indirizzo ma soltanto il cellulare, rubato in coda a uno sportello di banca mentre lo dettava al commesso, e così ho avuto l’idea, poi l’ho detta il pomeriggio al capo, quello mi ha guardato capendone ben poco e chiedendomi di inserire la proposta in un certo database dove i vari progetti sono poi approvati da quello e quell’altro ancora, allora io mi sono rotto, ho scritto un mail copiando tutta l’azienda, migliaia capisce, con su descritta bene bene l’idea e anche come realizzarla, e un mese dopo l’abbiamo implementata. A margine mi hanno dato un premio di 5000 euro, ma non ho chiesto niente, io, ho solo mandato il primo sms al mondo, alla ragazza, ovvio, non mi chieda come ha fatto a riceverlo perché non capirebbe, comunque poi ci siamo innamorati, bella storia sa? Bella storia davvero».
Aveva un po’ di raffreddore, quindi tirò su di naso, aveva parlato in apnea, aveva fretta di uscire da lì, per dirla tutta. Ad Akira Takasaki la vita non piaceva a pezzi, aveva imparato a gustarla non a morsi, ma nuotandoci, a bocca aperta, un assaggio perenne e continuo, per cui quelle cose lì lo disturbavano, gli sembrava di sembrare impotente verso la vita, che era peggio che esserlo di fronte a una donna, aveva sentenziato un giorno.
Ah, già, Mr. Sammers.
Niente, non disse niente.
Per esigenze di racconto, o meglio di scheda, dovremmo scrivere qualcosa, aggiungere, fare un botta e risposta, ma la dura e cruda realtà è che Mr. Sammers non rispose nulla. Nulla. Così fu Akira Takasaki, a interferire col silenzio grigio dell’ufficio enorme. «Se è tutto, direi che me ne posso andare» disse.
Ci fu silenzio, un paio di secondi, poi a intermittenza Mr. Sammers fece sì con la testa, così Akira Takasaki si girò, e si avviò verso il più rappresentativo corridoio d’Europa.
Mr. Sammers si sedette, aprì il pc, aprì power point, una nuova presentazione, la intitolò Area di Miglioramento: l’inventiva nell’azienda, e stette un po’ lì, come sospeso, prima di scrivere la prima frase.
Dobbiamo far respirare l’intelligenza.
Poi, sotto: il prossimo 18 Dicembre riunione straordinaria avente come oggetto la stesura di un documento guida per stimolare la creatività delle persone, creando un ecosistema, nell’azienda, in grado di incrementare la dinamicità delle idee. La riunione si terrà nella sala Orione dalle 10. 00 alle 12. 30. Si raccomanda la massima puntualità.
Poi prese il cellulare e mandò un sms al figlio, avente come oggetto l’ora a cui sarebbe arrivato a casa.
Ci risulta che Takasaki sia scomparso da diciotto mesi. Ha mandato una lettera di dimissioni giovedì pomeriggio, alle 16. 55, e non si è presentato il venerdì. Pochi se ne accorsero perché è abitudine comune fissare l’attenzione solo a ciò che è utile e non a ciò che vale. Come leggere o ascoltare e non comprendere altro che non ciò che sposa propri interessi o convinzioni

Settembre 5, 2025
di Fabio Palma
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Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili?

«Sì, uno scambio».
Menestrel chiuse il libro di fisica e ci ragionò su. Non era proprio un libro di fisica, voluminoso e altisonante. Era un libro pieno di immagini, con qualche disegno scherzoso, e pochissime formule. Menestrel aveva nove anni, e un modo tutto suo di andare dietro ai pensieri.
Aveva appena capito che la luce trasportava energia, che era ora palline ora movimento impalpabile, e che tutto, in fondo, andava avanti per scambi energetici. Forse non era proprio così, però Menestrel se lo disse in quel modo, quando ripose il libro. Lo ripeté ad alta voce, come interrogato. Poi afferrò il libro vicino, e ne sfogliò le prime pagine. Parlava di medicina, quello.
Menestrel abitava e viveva a Dreux, non lontanissimo da Parigi. Una cittadina dalle case eleganti e ordinate, con vialetti puliti e intarsiati, strade strette che intercettavano a sorpresa piccole piazze, e un’aria vagamente antica che le dava un contegno storico dal sapore toscano.
Quello che mancava, veramente, era la gente. Di giorno, chiusa in due grandi fabbriche poco più in là, la sera stancamente in attesa che arrivasse la notte. Mancava, appunto, il gioco, fosse di adulti o di bambini. Mancavano le forze per andare oltre una normale routine.
Cosa facessero gli altri bambini è poco importante, per noi. Certamente erano silenziosi, perché le strade di Dreux erano mute come ali interne di una grande basilica.
Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili? Di per sé ovvi e naturali, ma succedanei secondo il destino di ognuno, e quindi disposti come gettati a casaccio da un braccio occupato a mestieri di ben altri valori?
Erano le sei di pomeriggio quando, lievemente annoiato, Menestrel ripose anche il libro dei medici, dal quale aveva assorbito qualche nozione ortopedica. Dopo, si mise a giocare. Da solo, ovviamente, perché la madre era di là, a cucinare, il padre non ancora tornato, e gli altri bambini chissà.
Prese una pallina di polistirolo e cominciò a lanciarla contro il muro. Rimbalzava, la colpiva di testa o di piede, e mirava a una porta immaginaria. Era un gioco che non piaceva alla mamma, visto le macchie sul muro, ma non aveva altro da fare.
Fu il sesto rimbalzo che gli cambiò la visione del mondo. Il polistirolo, forse ammaccato, rimbalzò con una traiettoria imprevista, Menestrel si piegò verso destra per un tiro difficile, e udì il ginocchio ruotare, o forse abbassarsi, o magari girarsi, oppure chissà. Si accasciò sul tappetino della camera, e trattenne a stento un urlo scomposto. Giusto per un pelo, perché la mamma non sentisse e lo sgridasse per tutta la sera.

Menestrel scrutò il ginocchio, già gonfio, paventando un futuro difficile, una sera brutta e cattiva, il padre che tornava dalla fabbrica e non aveva mai voglia di stare con lui, la mamma con le lacrime agli occhi, come spesso capitava quando qualcosa deragliava dal lentissimo avanzare del tempo. Menestrel si guardò il ginocchio, se lo guardò, pensando al dolore che saliva forte, come un geyser, aveva letto dei geyser, uscivano dalla terra così forti e potenti, che bello sarebbe stato un giorno vederli, da vicino, lontano da quel paese tutto ordinato e senza eruzioni; si guardò il ginocchio, il dolore era così forte da troncare il respiro, non vedeva neppure le cose, la sua stanza, così diversa, vista così, chissà come avanza il dolore, si disse, palline di energia? Forse onde, onde di energia, sì, era una marea dolorosa, quella, una volta, solo una volta lo avevano portato al mare, una distesa d’acqua così grande che non aveva neanche osato toccare, con una nebbia impalpabile che aveva spostato l’orizzonte fuori da ogni sguardo ribelle, si mise a pensare, a pensare così forte che sentì l’energia del pensiero defluire, un’onda anche quella, le mani entrambe intrecciate su quel ginocchio, come in preghiera, il pensiero era andato verso le dita forse in piccole palline, in quello striminzito ma infinito circuito che è il percorso del sangue, e da lì chissà, Menestrel non l’avrebbe mai saputo spiegare, neanche molti anni dopo, quasi sette, quando già aveva guarito così tanti malanni che la gente aveva cominciato a mormorare e a parlarne, qualcuno anche in maniera sospetta, in fondo è una fortuna che certe cose accadano adesso, un tempo chissà, forse l’avrebbero bruciato, questo bambino, ma in fondo bruciano anche adesso, ora scottano, ti marchiano, in fondo è la stessa cosa, Menestrel si alzò una sera di novembre col ginocchio senza un dolore, attendendo con noia la solita cena, una zuppa e poi a letto, solitamente senza un pensiero, e invece quella sera la mente sfavillante di domande e risposte, ora sapeva cosa fare, della vita e di ogni sua diramazione, del tempo libero e di quello occupato, quando la mamma spense la luce alzò le mani e le vide brillare, lì, nella stanza buia del secondo piano di una delle tante case uguali di Dreux. Il paese dove niente era una domanda e dove nessuno se ne fece troppe quando, anni dopo, Menestrel se ne andò. Niente di diverso, rispetto e riconoscenza non sono mai stati valori comuni, usa chi ti serve e dimenticalo quando vuoi, è una legge quasi universale. Quello che accadde, però, fu registrato pochi mesi dopo, in un ospedale di Parigi, dove specialisti e professori cominciarono ad accogliere troppa gente da quella Dreux, da quella periferia. Tutti afflitti nella testa e sottopelle, come se mancasse del tessuto, o della linfa. Tutti doloranti, ricordi brucianti di un incontro che avevano usato e non capito.

Settembre 3, 2025
di Fabio Palma
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Ma un compasso ha sempre un centro, in fondo.

«Prendili tutti».
«Ma come li portiamo a casa?».
«Non li portiamo, li mettiamo in una buca».
«E se li trovano?». Il fratellino piegò verso il basso l’angolo acuto degli occhi. È capace di piangere in un attimo, pensò.
«Stai tranquillo, la copriamo ben bene. E poi qua non ci viene nessuno fino a giugno».
L’altro si tranquillizzò.
La spiaggia era disseminata di sassi il cui colore spiegava tutte le tonalità di rosso del creato. Striature, forme, punti e tracce. Una tavolozza senza fine. Drazen non capiva e non sapeva perché lo stesse facendo, ma andava avanti, come un salmone non conosce la verità che lo sospinge ma per intima pulsione insegue il destino senza troppe domande.
Lavorarono per mesi. Per lui era un lavoro, davvero, per il fratellino un gioco. Anche se gli faceva male la schiena. Avevano trovato una buca perfetta, al di là della fine della spiaggia di sassi. Forse un tempo un ruscello era morto così, in un ultimo affanno, sotterrando le ultime velleità, e cercando il mare più sotto, dove non si era dato a vedere. O forse la buca l’aveva costruita lui stesso, Drazen, a forza di quel sogno ricorrente. Sassi, sassi, coi loro disegni. Sassi su sassi. E quel sogno in cui Dio gli parlava attraverso infiniti disegni. Gli spiegava il perché del fratellino col braccino monco, come mai il padre era così cupo ogni sera, il padre che tornava tardi e spesso tormentava la mamma – si rifiutava di dire picchiare – . I sassi mi diranno tutto.
Drazen aveva 13 anni quando Patrick divenne il suo primo e più grande amico. Non si capivano, non si capirono mai, davvero. Altre lingue, lui veniva da lontano, la prima volta proprio a giugno, e la gelosia di un segreto, che è la molla di ogni odio, quando scoprì la buca Drazen ebbe l’impulso di ucciderlo. Lo aveva trovato lì, silenzioso, davanti all’enorme ammasso di sassi, illuminati da un’alba violacea.
Poi si erano scambiati le cose, incubi e sogni, pensieri e illuminazioni. Non c’era molto da fare, nell’isola, a giugno, prima che arrivassero i barconi dei turisti, e quelli invadevano il porticciolo soltanto da metà luglio in poi, quando l’isola cominciava a scoppiare dal caldo, forse portato anche dal sudore di tutta quella gente.
In qualche modo, crebbero insieme. Patrick con la sua scuola di computer, che Drazen neppure sapeva cosa fossero, e Drazen perfezionando il suo sogno ossessivo, che piano piano si trasformò in una complessa teoria. L’idea che nella natura ogni disegno volesse dire qualcosa, ma che tutto fosse immutabile tranne quello plasmato nella pietra.

Avevano 18 anni ed erano molto diversi quando Patrick si presentò una mattina di giugno con un oggetto nero e pieno di bottoni e rotelle. «È una macchina fotografica con una camera oscura incorporata» disse. «Metti dentro l’oggetto, e lei lo fotografa da più angolazioni».
Impiegò un’ora a spiegare all’amico il concetto, e altrettanto per dirgli che con quella e un computer si poteva fare qualcosa per dipanare i suoi dubbi.
«Quali dubbi?» domandò Drazen.
«Su chi guida nel mondo» rispose sorridendo Patrick.
Fotografarono tutti i sassi, ma proprio tutti. Ci misero quasi una settimana. Avevano tempo, d’altronde. Ancora a giugno in quell’isola non c’era nulla da fare se non guardare il mare, scottarsi al sole, e aspettare che la sera facesse quello che doveva fare, abbassare le luci e il termostato di quel piccolo torrido mondo dimenticato.
«E adesso, puoi farlo anche qui?».
«Certo» disse Patrick, allegro. «Sono qui per questo, no?».
Diede in pasto al computer migliaia e migliaia di foto, poi diede il via a un programma che cominciò a sezionarle, analizzarle, sviscerarle. Ogni foto tranciata, ruotata, e poi regredita alle sue fondamenta.
«E adesso?» chiese Drazen, impaziente.
«Ehi, hai aspettato anni, puoi attendere ancora un po’, no? Adesso con questo programma si cercano le correlazioni».
«E che cosa sono?».
«Somiglianze».
«Ma sono tutte forme diverse. Anche nei colori».
«Questo è quello che vediamo noi. Che ci vogliono far vedere. Ma vedi queste forme? Sono delle curve. Non curve semplici. Sono risultati di studi di funzione. Questo programma è capace di trovare le funzioni da cui provengono, e poi di confrontarle. Così da scoprirne similitudini, comunanze».
Decisamente, l’amico era cambiato, in quegli anni. Soprattutto dall’anno prima.
«Non ho capito molto, sai?».
«Non ti preoccupare, è normale. Sono cose tecniche. Difficili, ma stupide. Sei tu che hai avuto l’intuizione giusta».
«Intuizione?».
«Sì. Ora aspettiamo. È l’ultimo modello, ma ci vorranno giorni. La memoria dinamica è satura».
«Memoria dinamica?».
«Sì, non ti preoccupare. Tu sogna, sogna».
Due settimane dopo Drazen aveva davanti delle stampe. Patrick aveva perfino portato una stampante a colori, dietro al sogno dell’amico. Chissà perché l’aveva fatto, poi. Capita che si abbia una pulsione nel cuore, no? Una forza. Una cosa da salmoni, diciamo.
Fatto sta che Drazen aveva davanti ora disegni di foglie, scheletri, arti, particolari anatomici. L’unghia di un rapace e quella di una tigre, il becco di un picchio e la trama sottile del calco di un ago di pino. Decine e decine di forme naturali note e decisive. Le cose che avevano portato avanti le cose.
Patrick raggelò, alle prime stampe. Erano quasi mille, quando la stampante cessò di avere i colori. «È finito il toner» disse all’amico. Drazen non domandò neppure cosa fosse. Davanti, aveva altri sogni da fare.
«E adesso?».
«Ci devo pensare un po’ su» gli rispose.
«Già. C’è da pensare parecchio, mi sa».
«Tu cosa ne pensi?».
«Non credo ci sia da pensare. Comunque, non da parte mia».
Quell’estate i barconi furono più del dovuto e del solito. Ormai l’isola era diventata una meta famosa e diffusa. Un anno dopo, avviarono la costruzione di un villaggio turistico, squadrato e neppure così brutto alla vista. Riempirono la buca con del cemento, comparvero giardinetti curati e dal verde soffuso, e la prima cosa che Drazen notò, a costruzione conclusa, fu che ogni tipo di rosso, dal porpora al diafano arancione, era stato annullato.
Poi la vita se ne va dove deve andare, indipendentemente da quello che la gente si dice. Fu Patrick, un giorno, a denunciare la scomparsa del vecchio amico. Erano trascorsi degli anni, sempre più vuoti, anche di loro due. La lontananza si era allargata come un compasso a cui qualcuno aveva comandato la rotellina centrale.
Ma un compasso ha sempre un centro, in fondo. Forse per questo Patrick trovò il tempo di avere dei dubbi, quando l’amico non rispose più, un mese di giugno. In un singulto nostalgico, gli aveva telefonato dalle Antille Olandesi, vacanza dorata come un pane appena sfornato. «Non c’è, se ne è andato» gli risposero.
Drazen gli aveva detto, l’anno delle foto: «Ma sarà solo una cosa di qui, o tutti i sassi del mondo hanno dentro queste cose?».
Non aveva saputo rispondergli. E l’amico slavo aveva aggiunto, serio: «Sai, di notte, i miei sogni, non sono poi così belli. È come essere in un sudario. Dormo male. Certe volte molto male».
Soltanto adesso Patrick si fece la domanda se fossero convulsioni, quel dormire male del vecchio amico.

Settembre 1, 2025
di Fabio Palma
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DATECI UNA STRADA


«Veramente, ci sarebbe quel Pinna…».
Silenzio.
Forse il primo istante, di silenzio. Perché si urlava da ore, se lo ricorda bene, chi c’era. Avevano iniziato presto paventando una cosa lunga, ma era oramai notte fonda, e di vie d’uscita, niente. La notte, poi, lì, non era proprio una di quelle notti a cui si è abituati. Il nero era nero davvero, quando mancava la luna ed era un po’ nuvolo. Cosa che era normale, d’inverno.
Intanto nel paese era un dramma, di quelli veri, da telegiornale, anche se da quelle parti la tv non prendeva, e invero non prendeva nulla di nulla. Come essere in castigo nel mondo.
Erano isolati da tre giorni, e quello poi si accettava, si era isolati per natura e tradizione, a Pepato. Lo diceva la storia, meglio, la leggenda, visto che il mitico Pepato, fondatore, pare nel ‘300, del villaggio, altro non era che un fuori uscito, in tutti i sensi.
Non erano bastati secoli, a farci diventare uguali agli altri, e morire se lo si auspica, di uniformarci. Eravamo orgogliosi, o testardi, diciamo anche presuntuosi, insomma felici di essere a modo nostro, veramente diversi non so, eravamo una comunità, questo sì. Cattiva, anche. Perché gli stranieri non ci piacevano, eravamo razzisti nell’anima, anche verso i turisti che ci guardavano dall’alto in basso, e poi se ne andavano via contenti dell’olio, del formaggio, che poi glielo vendevamo sempre del peggiore, si capisce.
Solo che senza strada, franata il venerdì, si era davvero fuori, in tutti i sensi. E la frana si era portata via anche l’acqua, e al lunedì era scoppiato tutto, una bomba, tutti contro tutti, la frana aveva trascinato quella minima patina di gentilezza che avevamo pennellato a fatica, così che ci si odiava, per niente e tutto, mancava l’acqua e allora rancori e dispetti non erano più dilavati via, tremila anime che si accusavano di tutto.
E poi c’era la questione territorio, si capisce. Nel senso che Pepato era un ecosistema delicato, mille anni prima, intendo, e noi l’avevamo inteso come nostro, senza rispetto. Case grosse nel piccolo, palizzate e terrapieni sradicando alberi e pendii, e le macchine, almeno dieci, dieci, capite? Nostre. Ma molte di più quelle che venivano da fuori, che per Pepato era come un’invasione, barbara, per di più. Le macchine avevano, giorno dopo giorno, divorato la terra che Pepato aveva incontrato come grazia ricevuta quel tempo infinito addietro, e l’avevano fatto con stile. Perché non ci si accorge, di quello che fagocitano quotidianamente. Ti cambiano le pendenze, le curve, gli argini, tutto, impercettibilmente, come una mola che ti gratti via uno spigolo in cento settimane invece che con un taglio e via. E il risultato era che la terra, alla fine, si era ribellata con un amen, la grande frana.
Pinna.
«Il pastore?!?».
«È l’unico che lo conosce, il nostro territorio».
Era una frase carogna, quella, l’unico forestiero accettato perché non s’era potuto farlo fuori legalmente proposto come soluzione al dramma. Era troppo, ma il granellino di dubbio si era insinuato subito, fastidioso. A notte fonda, dicono che i sogni portino folate di realtà, e lì eravamo svegli, assonnati ma svegli, così che si capì il senso al volo, del Pinna.
Pinna era arrivato a Pepato due anni prima, e in un lampo aveva capito come fare il formaggio, coltivare le vigne, vezzeggiare gli uliveti, cose che non sapevamo fare più. Cose che ci frenarono nel mandarlo via, così che lo si detestava, ma faceva comodo, quel pastore lì. Che scompariva per giornate, e tornava sempre, e realmente non si allontanava mai, solo che lui sapeva veramente tutto, di Pepato, dove arrivava e dove si librava, noi invece, senza macchine o al massimo due passi in piazza, si era diventati schiavi del contorno comunale. Si diceva che Pinna si era impossessato della stazione, la casa colonica, quella dietro la montagna, per questo aveva acqua per fare quello che faceva.
La mattina, presto, rintracciarono Pinna, e lo portarono in assemblea. Cioè in piazza, tra la fontana e l’osteria.
«Pinna, ci serve una strada, un tracciato, un modo per far passare un furgone, una cisterna, per uscire dalla valle».
Silenzio.
«Il perito dice che non si può fare, che le pareti sono troppo ripide».
Silenzio.
«L’ingegnere calcola da venerdì, ma chissà che cosa».
«Dice che il terreno non va bene, dice».
«L’architetto propone l’elicottero, ma a noi serve una strada».
Silenzio.
«Piccola, sterrata, anche, ma una strada».
Pinna alzò appena un sopraciglio, l’altro non si degnò di farlo, c’era da pensare poco, alla risposta. Che venne fuori secca, senza frange.
«Vera?».
«Come vera?».
«Non come quella di prima».
«Cosa c’era che non andava, nella strada di prima?».
«Era sbagliata».
«Sbagliata?».
«Illogica».
Illogica proprio non se l’aspettavano, come parola, dal Pinna. Perfino quel diavolo dell’oste lo diede a vedere.
«Spiegati» disse l’oste, asciutto.
«Non c’era una curva giusta, e aveva tagliato la montagna, per questo è venuta giù».
Per essere un pastore, parlava mica male, il Pinna. Si mormorava leggesse molto, nelle sue giornate al sole o all’umido, che fosse l’unico lettore dei libri dell’osteria, quelli sopra le mensole. Pare che solo lui e l’oste li leggessero. Sembrava vero, da quel piglio lì…
«Va bene, Pinna, può darsi. Senti, non siamo qui a processare una strada che non c’è più. Cosa consigli?».
Silenzio. Il Pinna ruotò la testa come seguendo un’orbita.
«Dove mandare la ruspa?» chiese uno. L’oste lo fulminò con lo sguardo. Ma intervenne un altro: «Per aprirci un varco» disse quello.
«Fate seguire il mulo».
Silenzio.
Più che altro, non s’era capito bene, si pensò.
«Come dici, Pinna?».
«Il mulo, fate seguire il mulo dalla ruspa, e dagli operai. In due giorni, avrete la strada, l’unica, ma per sempre».
«Cosa c’entra il mulo?».
«Il mulo non sbaglia mai, va lento, ma senza fatica, e passa dove è sicuro, e non smotta mai. Calcola, a modo suo, ma calcola, fiuta il territorio, lo odora, e lo accarezza. E lo ascolta, anche. Se c’è un vuoto sotto, lo evita, se la pendenza è inversa, ci gira in basso. Sono cose che sapevate anche voi, una volta».
Così seguimmo davvero il mulo, e Pepato fu liberata. Nel senso che fuggirono tutti, l’anno dopo. Era troppo, farci insegnare da un mulo, e rimproverare da un pastore, forestiero. E la strada è venuta fuori così. Se non hai un macchina che sale come un mulo, non ci entri, in Pepato.
Pepato ora non c’è più, case abbandonate, niente macchine, e alberi che crescono. Dicono sia tornato il lupo, l’orso, che il territorio si sia riappropriato di se stesso. Noi abbiamo perso il nostro, cioè l’anima, perché quando si deve seguire un mulo per scappare da se stessi vuol dire che anche l’anima se n’è andata via. O magari è rimasta, ma spiumata. Lo si capisce quando la gente ti legge e non gliene frega niente di vuoto e dolore, ma solo delle apparenze. Muore la coerenza quando vedi solo il fine.

Agosto 30, 2025
di Fabio Palma
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I COLLOQUI

Tuomas Holopainen, intanto, era un bambino.
Davanti a lui, ogni mattina, si stendeva una monotona distesa di verde, con deboli spazi e riflessi uniformi.
«Tuomas diventerà qualcuno, sai?».
«Qualcuno come?».
«Come nessuno. Hai visto, anche ieri ne ha letto un altro».
«Credi che i libri lo renderanno diverso da noi?».
«Io penso di sì». Diede un bacio alla fronte della donna e uscì, nello stesso istante di ogni mattina. L’abitudine un rito.
Quando finiva la scuola, in estate, Tuomas raggiungeva il padre nel bosco finto, e approfittava della luce perenne. Guardava il padre e gli altri adulti ora frenetici ora lenti e misurati, tagliare, abbattere, accumulare. Gli alberi, una risorsa. Così aveva letto. «Papà, io leggo sulla carta che produci, sai?».
«Sì» gli aveva risposto il padre, «il mondo è così. Ognuno deve fare qualcosa per gli altri. E noi tagliamo gli alberi affinché si insegni».
«Si insegni a chi?».
«Beh, a tutti. Ai bambini. Ma anche agli adulti. Ogni libro è una lezione, no?».
Già a quell’età, ai bambini si insegnava il lavoro. Il taglio, l’ordinare, il produrre.
«Non gli fai fare qualcosa, a Tuomas?».
«Sta osservando».
«Osservando? Ah» gli rispondevano.
«Lui sa capire le cose. Le guarda diversamente» aggiunse il padre.
Da quelle parti certi giorni erano smilzi, senza grasso alcuno. Si poteva pensare, anche perché non c’era molto da fare. A scuola Tuomas era così bravo da potersi permettere di fissare le maestre con i pensieri molto più in là di muri, cortili, penisole. Pensieri spesso intrecciati, ma alla fine, sempre e comunque, depositati come limo su un fondo costituito da alberi. Alberi. Quelli fuori di casa, quelli tagliati e accatastati come giganteschi bastoncini di pesce, quelli che venivano su con velocità rigorosa e prevista. Soltanto ai margini di quel piccolo e piatto mondo gli alberi erano cresciuti senza troppe pressioni.
Aveva dieci anni quando osservò che gli alberi più bassi erano come più forti. A volte morivano, è vero, ma per mancanza di luce, non per malattie interiori. Quelle che attaccavano, invece, le conifere più alte e maestose.
Tuomas non diceva mai nulla agli altri e parlava poco anche con se stesso, e allora non si disse che aveva notato come gli alberi altissimi erano pieni di insetti, mentre altri più bassi avevano la corteccia pulita e deserta di attacchi. Non si disse neppure, qualche mese più in là, che degli alberi rimanevano bassi senza apparente motivo, così, magari lontani da vicini più pronti nel crescere. Rimanevano chini quasi fosse un’intima scelta.
Seduto, osservava, e con gli anni continuò meramente a guardare le cose, le stesse cose che guardavano gli altri. Su cui lavoravano gli altri. Si potrebbe dire, un’occhiata incessante.
Anni dopo formulò una teoria, e cioè che le piante avevano degli ormoni che rispondevano a degli speciali sensori che le foglie avevano disseminato in ordine sparso. Questi ormoni spingevano la crescita, mentre altri erano dedicati a schierare difese chimiche indigeste ai nemici. Era una questione di energia, come, qualcuno dice, lo è tutto il divenire o il regredire del mondo, e perfino cose nostre come baciarsi, piangere o sentirsi assalito dall’onda lunga della tristezza. Per gli alberi, i cui sentimenti sono ancora di là da sondare, la questione energia era, aveva pensato Tuomas dopo anni e anni di guardare, guardare, e ancora guardare, un duopolio di scelte. Impiegarla nel difendersi dagli insetti, o nel crescere per tendere alla luce più svelti.
Forse la pianta decide come meglio far fruttare la propria energia, si disse. Perché, cresciuto, ora si ripeteva spesso le cose. Ad alta voce, per giunta.
Lo disse prima a se stesso, e poi lo scrisse, in un articolo poco diffuso. Quando scomparve, senza un preciso perché, pochi colleghi si allarmarono e la stessa denuncia fu fatta per dovere e poco convinta. Passò di mano in mano e di computer in computer, fino ad arrivare sotto gli occhi di Rudy.
Lavorare. Che nobilita l’uomo, lo sappiamo, e quando ce ne dimentichiamo non mancano personalità al di sopra di ogni sospetto che ce lo ricordano con panegirici intensi e copiosi.
Quale lavoro? Qualcosa che la facesse scavare negli sguardi. Puntare gli occhi in quelli di un altro, dargli prima fiducia e poi allarmarlo, fino a sentirne l’odore acre della paura. Si fece assumere in una multinazionale, ufficio del Personale. Avrebbe selezionato la gente.
Iniziò così.
«Quindi lei cerca…».
«Responsabilità, mi piace gestire le persone».
«Il potere, quindi».
«Beh, controllare le risorse, potere è una parola forte».
«Supervisionare…».
«Sì, ecco…».
«Condurre, gestire».
«Appunto».
«Per il suo successo».
«Beh, per quello dell’azienda, anche».
«L’azienda. Cos’è per lei? La definisca».
«Una famiglia».
«Una grande famiglia».
«Sì, grande».
«Interessante. Anche in una piccola azienda vede una grande famiglia?».
«Beh, sì, non è il numero che conta».
«E cosa?».
«La dimensione… cioè, l’attaccamento delle persone. Io vivo per l’azienda, se l’azienda mi dà responsabilità».
«Qualunque cosa faccia?».
«Mah… sì, direi di sì. Il contenuto è secondario. Successi e sconfitte. Voglio dire, ciò che conta sono queste cose qui».
«Capisco. E la carriera?».
«Beh, è importante, certo».
«Scalare la gerarchia aziendale».
«Sì, certo, nell’azienda».
«Come scalare di ruolo in una famiglia».
«Sì… sì… crescere nella famiglia».
«Ma se questo volesse dire far fuori qualcuno? Metaforicamente, dico».
«Nel senso di spodestare?».
«Sì. Supponga di essere nella famiglia, e di voler diventare padre. Capofamiglia».
«Succede anche in natura, non ci vedrei niente di male».
«Come quando un leone diventa vecchio e i giovani lo cacciano o lo sbranano per prendergli il posto».
«Beh… sì, è un’immagine forte. Ma direi di sì».
«E se succedesse a lei?».
«A me?».
«Sì. Non penserà mica di non invecchiare mai, nel branco. Volevo dire nella famiglia».
«Lo accetterei, penso».
«Pensa».
«Sì… penso di sì. Magari soffrendone. Soffrendone un po’».
«Una ruota».


«Come dice, scusi?».
«Una ruota. Prima lei fa fuori gli altri, e poi un bel giorno arrivano i giovani a far fuori lei».
«Beh… un po’ crudo, però penso sia così».
«E la libertà?».
«Scusi?».
«La libertà. La sua. La sua autonomia. Possibilità di fare, capisce? Mi spiego?».
«Beh, sì… mah… non penso mi mancherebbe».
«Lei dice?».
«Direi di sì».
«Lo sa che un capo-branco non può fare ciò che vuole? Se lei si assume delle responsabilità, le rimane ben poco tempo libero. Ben poca libertà».
«Mah… ma la mia libertà è nel condurre gli altri verso il successo».
«Lei dice».
«Sì, dico di sì».
«E se l’azienda dovesse chiederle di spostarsi di 1000 km, di abbandonare le sue radici? Tutto?».
«Per motivi di lavoro?».
«E di cosa stiamo parlando?».
«Sì… volevo dire, per motivi di logistica».
«Di logistica… o per motivi di cui non le è dato di sapere».
«Capisco».
«Non so se capisce fino in fondo».
«Prego?».
«Le sto dicendo che da una mattina alla sera le chiedono di muoversi».
«Sì, l’ho capito».
«E quindi anche di lasciare responsabilità in cui si sentiva sicuro. Le dicono che è una nuova sfida».
«Nuove responsabilità?».
«No. Lei para sempre lì. Invece l’azienda, per compensarla di certi successi, le propone di gestire da solo un progetto».
«Da solo».
«Da solo. Responsabilità di se stesso».
«La vedrei… non è una retrocessione?».
«Me lo dica lei».
«Prego?».
«Me lo dica lei. Siamo qui per questo».
«Sì. Mi scusi».
«Non deve scusarsi. Solo rispondere alle mie domande».
«Sì. Mi scusi. Cioè, volevo dire, non è facile».
«Cosa?».
«Lei mi fa domande difficili».
«Non mi pare. Le illustro situazioni».
«Sì».
«Per esempio, qual è il suo stile di vita?».
«Prego?».
«Stile di vita. Quello che contraddistingue la sua vita privata. Sport, letture, hobby. Pratica qualche sport?».
«Qualcosa. Un tempo giocavo a pallavolo».
«E ha smesso».
«Sì. Sa, l’università».
«No, non so. Mi racconti».
«Beh, non riuscivo a gestire gli studi».
«Le piace la parola gestire».
«Sì… la uso un po’ spesso. Mi scusi».
«Le ho detto di non scusarsi. Comunque mi sta dicendo che non riusciva a giocare a pallavolo e a studiare».
«Sì, gli allenamenti…».
«Non bastava organizzarsi un po’?».
«Beh… forse ero giovane. Sono stato precipitoso».
«Non si sente più giovane?».
«Mah, non ho più 20 anni».
«Pericolosa, come affermazione».
«Prego?».
«Dico, se non è più giovane, quelli veramente giovani inizieranno già a spodestarla dal suo ruolo».
«Ah… beh, ma nell’azienda conta anche l’esperienza».
«Dice?».
«Beh, sì. L’esperienza è fondamentale. Si impara a riflettere, a…».
«Einstein scoprì la teoria della relatività senza bisogno di alcuna esperienza».

«E non fu il solo a non aver bisogno di quella che lei chiama Esperienza, con la E maiuscola. L’esperienza serve ai medi, cioè ai mediocri. Che hanno bisogno di tempo per imparare ciò che i geni assimilano in secondi. I mediocri sono lenti, e accusano i veloci di non conoscere la pazienza, la contemplazione… tutte palle, sa? I veloci contemplano tanto quanto i mediocri, solo che lo fanno in breve. In sintesi. Perché guardano e integrano. Capiscono. Digeriscono. E accumulano. E costruiscono. In secondi. Quella che lei chiama Esperienza è la scusa dei mediocri, che affossano i geni, specie se giovani, perché invidiosi e terrorizzati di perdere il proprio scettro. Conquistato con anni di lentissima tessitura. Sa quanti anni ho?».
«…No… no… insomma… non si chiede a una donna, no?». Cercò di ridere, poi sorrise. Ma ebbe il tempo di un attimo. Come un flash di una macchina fotografica, fu attraversato dal velocissimo pensiero di voler essere lontano da lì.
«Non me l’ha chiesto. Glielo sto dicendo io».
«Sì».
«Ne ho diciannove. Dieci meno di lei».
«Sì… com… complimenti».
«Grazie. Però eravamo rimasti allo stile di vita. E al suo ruolo nell’azienda. Traballante, direi, perché una come me potrebbe già cercare di farle le scarpe».
«Sì, signora».
«Signora? Ho diciannove anni. Presto per essere una signora».
«Sì. Mi scusi… non volevo offenderla».
«Non mi ha offeso. Solo che la vedo confuso».
«Sì… effettivamente… effettivamente mi aspettavo un colloquio diverso».
«Non è tranquillo?»
«Mah… non è questo…».
«Cos’è, allora?».
«Lei è molto… d’attacco…».
«Dice».
«Beh, sì… io…».
«Sa, posso dirle una confidenza?».
«Certo».
«La vedo confuso sui suoi valori».
«Dice?».
«Già».
«Mah, è che…».
«È tremendamente confuso, lei».
«Sì… è che…».
«Dovrebbe essere più pratico. Più sicuro di certe sue stesse ammissioni».
«Sì».
«Non si offenda. Si è offeso?».
«No… ».
«Bene. Può andare, mi farò sentire, nel caso».
«Sì».
«Le auguro buona fortuna».
«Sì».
«Giornata bastarda, oggi, eh?».
«Prego?».
«Dicevo per il tempo. Un vento che ti entra dentro».
«Sì. Ha ragione».
«Già. Anche se vento ce n’è pochino. Arrivederci».
«Una volta si presentò un tipo sul riflessivo, con la pelle del viso come una buccia di agrume, corrugata dall’osservare, sempre e comunque. Aveva modi tranquilli, si sedette con calma, esordì con flemma, proseguì con parole misurate. Ogni gesto una prolunga».
Era molto sicuro della sua velocità, del modo giusto di correre, così Genius gli fece una domanda, interrompendolo. Si vide che non l’aveva presa bene, l’interruzione, lo si notò da un grumo di espressione raccolto sul sopra ciglia destro, e Genius intravide la possibilità di divertirsi.
«Lei è mai stato in montagna?».
«Sì, certo. Ci vado spesso. Anche a scalare».
«Ah, è un alpinista?».
«Sì, potrei definirmi così. È la mia passione, ci vado ogni week end».
«E dove va? Mi racconti. Anche a me piace la montagna».
«Oh, ci ritroviamo, in due o tre. Sa cos’è una cordata?».
«Certo» rispose Genius. «Me ne intendo, un po’. Ho letto alcuni libri».
Voleva farlo parlare.
«Davvero? Per me è stupendo, andare in montagna. Permette di riflettere sulla vita, di muoversi con calma, nel silenzio della natura. Percepire gli odori, osservare senza stress i colori, le forme. La montagna è così diversa dal mondo che ci siamo costruiti. In montagna trovo me stesso, e riesco a farlo con i miei amici. E lo si può fare lentamente, gustando fino in fondo quello che tocchiamo o sfioriamo».
«È un poeta, lei».
«Ma no. O chissà… siamo tutti un po’ poeti, in montagna. Andando piano, ci si perde in se stessi, e si scopre la poesia. Sì» aggiunse con un sorriso largo e diffuso, «forse siamo tutti poeti, in montagna».
«Forse ha ragione. E, mi dica, è mai stato, che so, sul Bianco? O in Patagonia?».
Quasi rise sguaiato, nel rispondere. «Oh, no» le disse, «non sono a quei livelli. Vado più che altro qui vicino».
«Ah… no, le chiedevo questo perché sono stata sul Bianco, con una guida alpina. Su una via, sembra, abbastanza famosa. Forse la conosce… Divine Providence… le dice qualcosa, il nome?».
Lui piegò il collo sulla sinistra, e rispose battendo due volte il sopra e sotto degli occhi. «È una via famosa» disse. «È molto difficile…».
«Ah, mi pareva… sì, mi sembrò difficile, in effetti. Più che altro, non facile. Il nome, poi, lo trovai azzeccato» proseguì Maddalena. «Sa perché? A un certo punto il cielo cambiò completamente, minacciò tempesta, di quelle da telegiornale, insomma, quando dicono che ci sono alpinisti dispersi sul Bianco».
Fece una pausa, non piccola. Proseguì.
«La guida a cui ero legata mi urlò due o tre cose sulle manovre, e cambiammo il passo, completamente. Incredibile quanto fummo veloci, da lì in poi. Dei razzi. Sa, un conto è essere lenti sulle cose facili, un altro andare veloci sul difficile. Mi capisce?».
«Sì… sì, dipende dalle circostanze, certo».
«Non solo, non solo. Dipende anche da se stessi. Da come ti sai muovere. Dalla bravura. Vede, se uno è bravo in una cosa, è per sua natura veloce nel farla. Per gli altri, intendo. Lui, in sé e per se stesso, si muove e agisce e pensa normalmente, potremmo dire lentamente, però per gli altri è veloce, un razzo, appunto. E sa cosa suscita, di solito? Lo sa?».
«Mmm… beh, ammirazione, direi».
«No, ammirazione lo dice qui, davanti a me. Ma nella realtà desta invidia, gelosia. Non si sa gustare le cose, si dice. Guarda come cammina, guarda come scala, guarda come legge… chissà come capisce e come si gusta le cose, quello lì. Di sicuro non sa neanche quello che sta facendo, dicono. Conosce un po’ Mozart?».
«Mozart… il musicista? Beh… sì, certo…».
«Sa che a 6 anni aveva già composto un mucchio di roba? Complessa, cose che gli altri avrebbero composto in anni, e non con quella profondità. Lui l’aveva fatto VELOCEoceMENTE. Il suo pensiero correva. Agile. Si destreggiava dove gli altri compositori inciampavano, o si arrestavano. Lui saltava. Come quel matematico, l’indiano Ramadayan. Mai sentito?».
Maddalena detta Mad e un giorno da Rudy chiamata Genius incalzava, e l’altro stava faticando. Come appoggiandosi a un bastone fra ogni volta che doveva rispondere.
«No… no, non mi intendo di…».
«È stato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, sa? Non aveva ancora venti anni e aveva già scritto alcuni dei più grandi teoremi della storia della matematica. Volava sui numeri, letteralmente. Le operazioni più complesse scomposte a mattoni come solo un moderno computer sa fare. Beh, su quella via di
montagna cominciammo ad andare così. Veloci. Anzi, in realtà semplicemente scalavamo al nostro livello, o meglio io al livello della guida, ed era un modo di procedere veloce, lesto. Giusto, per dove eravamo. E poi, lei citava il silenzio… a un certo punto scoppiarono i tuoni, da qualche parte. Letteralmente. Delle bombe. Altro che silenzio della natura. La natura ha il suo spartito, e mica è così silenzioso, sa? Anzi, un tuono in montagna fa molto più rumore che cento tubi di scappamento in città. La natura segue le leggi del caos, nell’ordine e nei suoni, e il caos si fa sentire a volume altissimo. D’altronde, sa, i più grandi musicisti della storia della musica classica sono diventati sordi. La musica va sentita a volume alto, non si deve sussurrare, quello va bene in chiesa, dove non si deve alzare la voce. Se non nei canti, verso Dio, e allora anche lì si alza la voce. E provi ad ascoltare i capolavori del rock, li deve ascoltare a volume alto, per comprenderli nella loro massima potenza espressiva. Ma torniamo a quella volta in montagna» continuò Genius, «sa cosa pensai, quella volta? No, non lo sa… glielo spiego, pensai che nella mediocrità ci si può affidare alla tenacia e alla sofferenza, alla lentezza e all’osservazione fine a se stessa, ma se ci si vuole innalzare verso qualcosa, allora bisogna essere veloci… bisogna essere veloci per rincorrere le nuvole, disse un famoso alpinista, sa? E poi quella guida, che era un fuoriclasse, un alpinista famoso, mi disse che in Patagonia, dove era stato più volte, i venti soffiano sempre a oltre 140 orari, un frastuono che neanche una somma di catapulte amplificate, e la velocità è tutto, bisogna essere svelti nelle minime cose, e così ad alta quota, sopra i 5000 metri, su tutte le vette, si avanza lenti per carenza di ossigeno, ma comunque ci si deve affrettare, perché ogni minuto in più è un’esposizione al pericolo. Mi capisce?».
L’uomo era ormai scomposto, sulla sedia. Tracimava insicurezza. «Sì, un po’» rispose.
«Un po’… certo, capisco. Riesce a capire solo un po’. Si vede che la velocità non è proprio il suo forte. Lei ama vivere lentamente, la vita le appare fin troppo veloce e allora se ne va in montagna, lontano dal logorio della vita moderna, come diceva una pubblicità. Ma cosa va a fare in montagna? Cose così, passeggiate. Piccole escursioni, dove può andare a piacer suo. E il piacer suo è fermo. Non si muove».
«Non vado solo a camminare, noi facciamo le vie» protestò l’uomo. «Vie di montagna, anche lunghe».
«Oh, certo, le SUE vie. Quelle che riesce a fare. Vie così… da corso di montagna, diciamo. Immagini un genio, un fuoriclasse, su quella che lei chiama via. Un sentiero per una corsetta, la chiamerà. Tutto è proporzionale al genio che uno si ritrova, sa? Ma questo, in sé, non è mica un problema. Non è un problema non essere veloci quanto una guida, essere lenti rispetto a lei, e non è un problema fare i conti lentamente, e cose così. Sa qual è, il vero problema? Anzi, ce ne sono due. Sa quali sono? Mi dica».
L’uomo deglutì, poi per la tredicesima volta piegò la testa verso destra, per la ventiquattresima volta contrasse il muscolo facciale sinistro, poi irrigidì il muscolo trapezio della spalla sinistra, assumendo quindi una posizione deforme, un pupazzo scardinato nel progetto di mantenere una posizione eretta e definitiva, in questo disattendendo il grande progetto dell’umanità di camminare a posizione eretta e di sedersi senza afflosciarsi in una molle depressione addominale, delegittimando la volontà della schiena di porsi regale, e quella donna, lì davanti, gli apparve austera e regina, superiore, VELOCE nel pensiero, nei riflessi, in tutto. Tentò una risposta, ma fu lento nel comporla, nell’esaminare le alternative, e infine nel costruirla. Come avere davanti cento pezzi di cose, e costruirci qualcosa, di sapiente, di sensato, e non farcela, mentre davanti un altro, un’altra, riusciva intanto a farci una casa, e poi disfarla e farci una barca, e poi ancora altro, e altro ancora.
«Non si sforzi, glielo dico io».
«Sì… sì».
«Si calmi».
«Sì».
«Il primo problema, il primo per l’uomo e la società tutta, è che arroganza e stupido orgoglio fanno sì che l’invidia travalichi l’ammirazione e il giusto consenso, ed eventualmente l’apprendimento, così che il genio venga criticato, deriso, messo alla sbarra, perché troppo veloce, troppo avanti nel costruire le cose, superiore esploratore della realtà e di quanto è irreale, necessario a tutti nel presente e nel passato, perché tutti hanno bisogno del genio per progredire e avanzare, ma nessuno lo ammette, e lo si mette alla gogna, salvo poi esaltarlo da morto. Il secondo problema è che per questo lavoro l’azienda esige brillante inventiva e capacità di reagire alla dinamica dei problemi e dei progetti, piuttosto complessi, niente di trascendentale ma comunque superiori alla media, e l’inventiva è propria del veloce a pensare, di colui che reagisce di scatto e nel giusto, riflessivo quando serve ma mai lento, reattivo, diciamo. Mi dispiace, può andare».
E lo disse veloce, così rapida che neanche ci fu il tempo di un saluto gentile.
Tanto che passò appena un secondo che Genius alzò al testa, e inflessibile disse: «Ho da fare, può andare, glielo devo ripetere lento?».
Di quello che accadde nei successivi secondi, è perfino superfluo narrare, perché Genius risolse a mente una combinazione di colori e di forme generando un quadro mentale che nessuno avrebbe mai potuto ammirare, mentre l’uomo se ne uscì con maldestra attenzione, un sospiro nell’aprire la porta, e i muscoli gonfi di acido lattico come dopo una via di montagna difficile, una di quelle che non aveva mai voluto attaccare, troppo difficile, aveva sempre pensato, e così concluse più avanti, sarebbe stato un lavoro troppo difficile, si disse, e lo criticò aspramente, quando ne parlò agli amici la domenica dopo. Nel reticolo nascosto dei suoi pensieri sapeva di non raccontare la verità, ma gli amici gli credettero, e succede sempre così, basta non raccontare la verità quando agisci torbidamente.